III domenica di Avvento (B)


ANNO B - 14 dicembre 2008
III Domenica di Avvento

Is 61,1-2a.10-11
1Tess 5,16-24
Gv 1,6-8.19-28

IL BATTISTA SI RITRAE NELL'OMBRA
DAVANTI ALL'ATTESO DELLE GENTI

Il vangelo di questa terza domenica alterna due movimenti piuttosto diversi fra loro. I primi tre versetti sono tratti dal Prologo e racchiudono in poche densissime espressioni il senso di una vita e di una presenza: quella di Giovanni Battista. Egli non era che un uomo e come ogni altro uomo aveva un nome: Giovanni. Ma non veniva da sé: era mandato da Dio (v. 6). Giovanni era un dito puntato, era una allusione vivente. Come tutte le grandi vite, anche la sua traeva la propria grandezza non dal fatto di essere un circolo chiuso bastante a sé stesso. Era una vita immensa perché rimandava ad altro da sé, come un semicerchio in cui il tratto mancante consente allo spazio interno di toccare lo spazio esterno, molto più grande e senza confini. Il Battista venne per rendere testimonianza alla luce e rese la propria testimonianza in modo così radicale da essere confuso con la luce stessa. Giovanni non era un pallido riflesso di luce. Fu un uomo mandato da Dio e inebriato dalla luce (v. 7). Nella sua vita si fondono assolutezza e relatività: tutti avrebbero creduto per mezzo di lui che non era nulla, se non un testimone dell' assoluto.

Il termine chiave dei vv. 6-8 del Prologo - "testimoniare" (presente tre volte nei soli vv. 7-8) - apre anche la sezione narrativa del primo capitolo di Giovanni. Tutto ciò che poeticamente e simbolicamente è stato affermato del Precursore come cifra della sua esistenza, ora viene dilatato nel racconto. La narrazione muove da un altro invio: questa volta non dal Padre, ma da una città che rappresenta il cuore religioso della Terra Santa. Si tratta di un'ambasciata contraddistinta da tutti i crismi necessari. È l'intera gerarchia del tempo che raggiunge l'originale predicatore nei pressi del Giordano per verificarne l'identità. La risposta del Battista è introdotta da una frase piuttosto ridondante, tipica del gergo giuridico così caro al quarto vangelo. Giovanni «confessò e non negò e confessò». Questa martellante sequenza di verbi introduce una sentenza in qualche modo definitiva: la verità e null'altro che la verità sta per essere pronunciata. Paradossalmente però smentisce se stessa per ben tre volte: il narratore dichiara infatti che il Battista «non negò» (v. 20). È invece esattamente quanto egli fa, rispondendo alle prime tre domande che gli vengono rivolte. Egli non è il Cristo. Non è Elia. Neppure è uno dei profeti. Che cosa è stato «confessato fino ad ora?». Nulla se non in negativo. Possiamo anche notare che le stesse negazioni si contraggono nell' Originale greco come nella traduzione, costituendo risposte sempre più brevi e veloci come una lampada che si va spegnendo, come un'eco che si assottiglia con il passare dei secondi.

L'inizio del dialogo tra il Battista e le autorità giudaiche è il commento più plastico e affascinante alle parole che il Precursore userà per definire il suo rapporto con il Messia: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30). La radicalità di Giovanni il Battezzatore è tutta qui. Non possiamo identificarla con il suo vestiario o la sua dieta, cui il quarto vangelo neppure accenna. La sua sobrietà abita nella coscienza che quest'uomo ebbe di sé, coscienza autenticamente "religiosa" nel senso etimologico del termine: essere legati a doppio filo a Colui dal quale tutto prende esisten za e davanti al quale siamo nulla; Colui in nome del quale la nostra vita assume sapore e colore se ne diventa annuncio, testimonianza e segno. Le ripetute negazioni di Giovanni sono l'affermazione più splendente e lapidaria del senso del suo esserci.
Tutto questo per noi è profondamente urtante. La nostra coscienza moderna crea "io" ipertrofici talmente dilatati da schiacciare tutto e tutti. Spesso non abbiamo in bocca nient'altro che non sia ciò che abbiamo detto e fatto e realizzato, come se la nostra vita potesse reggersi o spiegarsi da sola. Il soggettivismo in fondo è questo: l'io di ciascuno diviene misura del tutto. Nel Battista è il Tutto di Cristo a misurare il suo "io". Solo la ripetuta e sconcertata domanda delle autorità che già hanno udito tutto e non hanno capito nulla ottiene dal Precursore una breve affermazione.

Di nuovo però non sono parole del Battista: è una citazione di Isaia. Egli è voce. Tutto è nel messaggio. Il mezzo è quasi irrilevante. Quasi potesse esistere un suono che esce dal nulla e poi vi ritorna. Siamo ancora davanti a un rimando e a una allusione che l'ambasciata gerosolimitana non coglie. Essa, in fondo, è preoccupata del "fare" di Giovanni e della sua imbarazzante attività di battezzatore. Eppure essa non è che preparazione a ciò che sta per avvenire. Gli interlocutori del Battista non conoscono chi è già in mezzo a loro e sta per venire (v. 26). Ma come potrebbe attendere ancora qualcosa o qualcuno chi dilata la propria persona e le proprie possibilità fino a occupare tutto lo spazio possibile? Attendere è ritrarsi, è ridimensionarsi, è scoprire tutto quello spazio dove non posso arrivare, spazio che mi consegna sempre e di nuovo al mio non-essere, al mio non-bastarmi mai. Il v. 27 e la magnifica immagine usata da Giovanni alludono all'unico gesto possibile che è quello del prostrarsi. Se dovessi sciogliere il legaccio a un sandalo, non potrei farlo se non chinandomi davanti a chi lo indossa. Solo così riusciamo a immaginare compiutamente il Battezzatore, nell'atto di inginocchiarsi davanti a Colui che consacra eternamente la sua vita.

VITA PASTORALE N. 11/2008 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



torna su
torna all'indice
home