II Domenica dopo Natale (B)

ANNO B - 4 gennaio 2009
II Domenica dopo Natale


Sir 24,1-4.8-12
Ef 1,3-6, 15-18
Gv 1,1-18
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ORA LA PRESENZA DI DIO
È UNA TENDA FRA LE ALTRE

La prima lettura dell'odierna domenica introduce finemente un'altra prospettiva secondo cui leggere il testo giovanneo del Prologo, vera e propria pagina portante della liturgia natalizia. La sapienza di Dio, uscita dalla bocca dell'Altissimo (v. 3), non può che avere la sua dimora «su una colonna di nubi» (v. 4). Ciò che è divino ha la sua collocazione nel cielo. Eppure proprio il creatore dell'universo dà un ordine: «Fissa la tenda in Giacobbe» (v. 8). Così accade che quanto c'è di più celeste venga a collocarsi in mezzo a una realtà solamente mondana. Dal "trono" si passa alla "tenda". La terra non è il cielo. La terra è luogo di precarietà. Non c'è posto che per una tenda accanto all'uomo pellegrino.

Questo evento può cambiare il modo in cui vediamo la realtà: non perché essa muti aspetto, ma perché è stata graziata da un incontro, da una discesa. Immaginiamo una scena semplicissima: due carcerati si affacciano alla finestra della loro cella e guardano fuori dalla loro prigione: uno vede solo il fango, l'altro solo le stelle. L'orizzonte è lo stesso. Ma cambia a seconda del punto di vista che scegliamo per affacciarci. Così è anche della nostra vita. Essa, nella sua complessità, ha molte facce. Definiamo ottimisti coloro che sanno vederne il lato più affascinante e misterioso. Al contrario, chiamiamo pessimisti coloro che non scorgono altro che le difficoltà e le fatiche. Certamente, sulla strada da percorrere a volte il terreno si allenta e diventa pesantissimo tentare di camminare. Mai ci abbandona il senso di precarietà che è sempre legato all'esperienza di un cammino che non può conoscere soste. Siamo obbligati a procedere verso la meta. Viviamo la condizione dei pellegrini, anche se cerchiamo con forza un nido e sogniamo di abitare una dimora più confortevole possibile. Tuttavia, l'esperienza del ritorno nella nostra casa si sposa continuamente con la sensazione che non vi possa essere una vera stabilità. Il tempo che passa, i giorni che procedono, cambiano continuamente gli equilibri che a volte così faticosamente abbiamo costruito. E sentiamo di dover ancora una volta riprendere il cammino, magari accelerando il passo, per non restare indietro. Per questo anche la casa più comoda rimane sempre una "tenda", perché noi siamo per natura pellegrini.
La pagina evangelica odierna, il Prologo di Giovanni, non teme di riprendere l'immagine usata dal Siracide. L'evangelista scrive, rammentando l'esperienza del deserto, dell'uscita dall'Egitto, quando l'essere pellegrini significò anche camminare nella certezza della presenza e protezione di Dio. Era YHWH la guida, colui che apriva il cammino verso la terra promessa. Ogni precarietà era vinta dalla cura che il Signore manifestò per il suo popolo.
Ora, scrive l'evangelista, la cura di Dio ha raggiunto il vertice colmando ogni distanza e differenza. Fra le tende di Israele, Dio stesso in Cristo ha aggiunto la propria: «E il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14), afferma Giovanni se rendiamo la forza originale del greco. L'Incarnazione è la radicale vittoria sulla solitudine umana. L'immagine è ricca di suggestione e di potenza: ora la presenza di Dio è una tenda fra le altre, una tenda in più in mezzo a un popolo di pellegrini. L'Emmanuele è veramente il Dio con noi.

L'ordinarietà e semplicità di questa presenza, forza e debolezza del Natale, sono all'Origine della fede e dell'incredulità. La totale vicinanza del Verbo ci commuove e ci esorta a credere in maniera sincera e totale, ci esorta ad accogliere questo Dio. Ma la stessa radicale vicinanza ci disorienta: la tenda del Verbo viene a confondersi per la sua ordinarietà con tutte le altre, tanto è simile ad esse.
Per questo Giovanni, celebrando l'inizio della redenzione, deve anche constatare la chiusura ostinata di chi non ha voluto accogliere la Luce che veniva nel mondo. Così il cammino del Verbo sulle strade dell'uomo è potuto passare inosservato. La storia di quel primo Natale è la storia di ogni Natale. L'Incarnazione segna il passo supremo che Dio compie verso l'uomo, assumendo un volto di uomo e un cuore di uomo. Eppure, questo passo supremo non è stato compreso da chi chiede dal cielo manifestazioni potenti e segni inconfondibili. Il segno dell'amore è una tenda fra le tende. In quella tenda abita corporalmente, come dirà l'apostolo, tutta la pienezza della divinità.
Per chi crede nel suo nome si compie quello scambio ammirabile, che è la sostanza della nostra fede. Abbiamo una nuova dignità, che si radica nella semplicità del presepe. Il presepe è un autentico letto nuziale. E il letto dove si sono congiunti il fango e le stelle, la terra e il cielo. E quell'abbraccio dell'eternità e del tempo che dà luminosità nuova al fango che affatica il nostro cammino. Per chi crede nel suo nome, guardare fuori dalla propria finestra è vedere un mondo che, nelle sue storture, il Padre ha amato profondamente e che il Figlio, tramite lo Spirito, ha scelto come dimora. «Dio nessuno l'ha mai visto»: la sfida della fede, la sfida di ogni Natale è riuscire a contemplarlo nei panni del Bambino, perché in noi possa rafforzarsi la speranza. Il mistero che stiamo celebrando non rappresenta un'idea, non è una messa in scena. Il Prologo descrive la concretezza di un evento.


VITA PASTORALE N. 11/2008 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)

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