II domenica di Avvento (B)


ANNO B - 7 dicembre 2008
II Domenica di Avvento

Is 40,1-5.9-11
2 Pt 3,8-14
Mc 1,1-8

CRISTO VIENE, È VENUTO E VERRÀ
PERCHÉ CI VUOLE COME PARTNER


È immediato cogliere il nesso tra il sentimento di letizia tipico di questo tempo d'Avvento e l'apertura del testo di Isaia. Sempre la gioia umana si misura con il limite e la fatica del vivere. Per questo essa non si presenta come sentimento "assoluto", nel senso originario di "sciolto" o "svincolato" da tutto, ma deve misurarsi con ogni forma di esilio o lontananza: da sé, dall'altro, da Dio. L'esilio, di cui il cosiddetto Deutero-Isaia annuncia la fine in Is 40,1-11, assomma in sé questa triplice lontananza: il popolo era stato frammentato dalla deportazione; YHWH sembrava ostile alla nazione eletta; ciascuno aveva perduto la speranza in un possibile futuro di pace nella terra promessa al padre Abramo.
Per questo la causa della consolazione è il ritorno di Dio, assieme al suo gregge, specie i più deboli (40,10-11). Ciò che consente la ricomparsa della gioia è l'avvento del Signore. Potremmo riassumere il senso della prima lettura interpretando la gioia come sorpresa e stupore. Il popolo è sorpreso dalla letizia, come accade per un evento insperato e immeritato insieme. L'incontro con il Pastore è tutto questo. Risulta certo più difficile cogliere le stesse armoniche nel testo marciano. Eppure, come testimonia la sua prima parola, vocabolo di apertura dell'intero vangelo, ma anche dell'intera Bibbia giudaico-cristiana nel suo corrispettivo ebraico - «In principio Dio creò il cielo e la terra», Gen 1,1 - siamo davanti all'inizio, al principio dell'evento Cristo, pienezza della rivelazione, della salvezza e dunque anche della gioia. Il termine greco in questione ha infatti tre significati molto vicini tra loro: "inizio", "causa", "fondamento".
Non è complesso riferirli a Cristo, "inizio" della salvezza definitiva, "causa" della redenzione, "fondamento" della vita nuova inaugurata dalla Pasqua. Tutto si coagula e si compie in lui, Messia e Figlio di Dio (Mc 1,1). Tuttavia, dopo una duplice citazione biblica tratta non dal solo Isaia, ma anche dal profeta Malachia, sulla scena non compare il Cristo, bensì Giovanni Battista. Il lettore dovrebbe giungere fino al v. 9 del primo capitolo per scorgere l' ''avvento'' di Gesù sulla scena.

Perché Marco opera questo differimento e lascia in sospeso il proprio lettore introducendo una figura importante ma pur sempre diversa dal "principio", dal "fondamento"? L'inizio del secondo vangelo condensa in pochi versetti molti secoli, creando un'eco formidabile fra passato e presente. Il passato, attraverso le parole di Isaia, diviene il luogo di una promessa tanto lontana quanto veridica. Giovanni Battista può essere compreso solo grazie a quelle lontane parole. Ciò dimostra che l'affidabilità di una parola non coincide certo con la sua "freschezza" cronologica. Isaia e Malachia avevano profetizzato una voce nel deserto ed ecco comparire, secoli dopo, Giovanni Battista. Anche costui profetizza e annuncia l'avvento di uno «più forte» (Mc 1,7). L'eco continua. Egli, il Promesso, verrà.
Perché il lettore dovrebbe dubitare di questa ultima gigantesca profezia quando le parole di Isaia e Malachia, addormentate da secoli, sono state "svegliate" da colui che le ha compiute, Giovanni Battista? Dio promette attraverso la voce dei suoi profeti. Noi siamo destinatari di una promessa che è luogo di fede perché è luogo di attesa. Chi accetta una promessa è come se conseguisse un credito, una cambiale. Attende che essa venga "pagata", assolta. La fede ci proietta nel tempo, appesi al sottile ma tenace filo della parola di Dio che scorre nelle parole di uomini. Da subito, Marco indica l'attesa come via alla pienezza della gioia. Essa è da subito nella Parola che promette, ma domanda pazienza in chi ascolta la Parola stessa.
Se ci sembra innaturale la pedagogia di Dio, basta pensare ai propri peccati. Che cosa è il peccato se non una promessa disattesa, una cocente delusione? Abbiamo creduto di stringere fra le mani oro, ma non era che sabbia. Speravamo di saziare i nostri desideri e restiamo con la cocente delusione di un vuoto amaro.
L'Avvento è tempo di verifica di ogni strada che percorriamo verso gioie vere o presunte. Mentre ci affanniamo, egli "viene" come suggerisce Giovanni Battista, ricco di un "soffio", lo Spirito, capace di "immergerci", ossia battezzarci, nel mistero di Dio. Secondo una possibile lettura, il legaccio dei sandali è una immagine squisitamente nuziale: chi giunge è lo sposo. Nessuno, neppure l'asceta Giovanni, vi si può sostituire: la promessa non sarebbe compiuta. Nessuno è degno di sciogliergli il legaccio del sandalo, cioè rivendicare il diritto a essere lo sposo legittimo.

La metafora nuziale completa quella pastorale offerta dalla prima lettura e ci aiuta a comprendere cosa significhi «parlare al cuore di Gerusalemme» (Is 40,2): se il pastore giunge prendendosi cura delle pecore più fragili e deboli, il suo amore non è semplice assistenza a chi è nel bisogno. Desidera invece tessere con ciascuno di noi il rapporto libero più intenso e duraturo che possiamo immaginare: il legame matrimoniale. In questo patto non v'è sproporzione fra chi dà e chi riceve. Non c'è un indigente e un ricco, ma due ricchi e indigenti insieme. Il Cristo viene, è venuto e verrà perché desidera l'uomo come suo partner. Possiamo accogliere a cuore aperto, allora, la sorpresa che sempre la gioia riserva al nostro intimo visitato da Dio stesso.

VITA PASTORALE N. 10/2008 (commento di Caudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)




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