III Domenica di Pasqua (B)


ANNO B - 26 aprile 2009
III Domenica di Pasqua

At 3,13-15.17-19
1Gv 2,1-5a
Lc 24,35-48

I DISCEPOLI DI EMMAUS
PARADIGMA DELLA FEDE

Anche questa terza domenica di Pasqua presenta il difficile incontro tra il Risorto e la comunità credente. Non mancano analogie tra il passo giovanneo di domenica scorsa e l'odierna pericope lucana. Lo scacco in cui era caduto Tommaso si ripresenta qui per gli undici al completo. L'esortazione che Gesù rivolge loro a "toccare" il suo corpo (v. 39) non è molto distante da quella diretta all'apostolo incredulo perché non molto distante è la reazione del gruppo alla visita del Risorto. Essi sono impauriti; credono di vedere un fantasma (v. 37). Se Tommaso aveva professato la propria fede davanti al Cristo apparsogli, qui gli undici vedono ma continuano a non credere (v. 41). Sembra che il conflitto tra fede e incredulità sia ulteriormente inasprito. Non basta neppure vedere il Cristo per aderire al mistero della sua risurrezione?
La fede è, di nuovo, un percorso lungo e travagliato. Si mostra anche come percorso strettamente individuale. C'è chi è più avanti e suscita la nostra invidia e la nostra ammirazione. Ci siamo noi, magari ancora vacillanti e incerti nei nostri passi verso Gesù. Come anche domenica scorsa ulteriore analogia - i presenti viaggiano a due velocità. Se otto giorni dopo Pasqua si ritrovarono insieme un incredulo e dieci credenti, qui giungono carichi del loro incontro e del loro racconto i due di Emmaus. Ma il gruppo degli Undici non reagisce alla visione di Gesù con il medesimo fervore ed entusiasmo. Il racconto di alcuni deve divenire esperienza concreta di ciascuno. Non si può credere a lungo attraverso la fede di un altro.

D'altronde, la fede di un uomo non è un accessorio rispetto alla totalità della vita: conoscere una persona non significa certo conoscerne alcuni dettagli esteriori. Non è l'aspetto o la professione o il reddito a guidarci dentro il mistero di una coscienza. Conosciamo qualcuno quando sappiamo dire in che cosa crede, che cosa lo accende e per che cosa sarebbe disposto a sacrificare tutto. La fede ci porta al cuore della vita di una persona. Forse per questo i vangeli pasquali insistono così fortemente sul dramma della fede: ne va della vita degli undici, non solo del breve tempo in cui videro il Signore. Non v'è, allora, apparizione del Risorto che sfoci in tutta tranquillità nel riconoscimento e nell'abbraccio. Ci incoraggia e fortifica il percorso dei personaggi evangelici. Il nostro non è, in fondo, diverso dal loro. Anche la mèta, tuttavia, può essere la medesima. Al parto della fede si associano qui due emozioni ben precise: il timore e lo stupore, come indica il testo evangelico (vv. 37.41). Sono sentimenti distanti fra loro ma entrambi molto pertinenti al credere.
La fede nasce dallo stupore. È ciò che mi meraviglia ad attrarre il consenso del cuore, della mente e delle scelte. È ciò che mi sorprende per la sua grandezza e bellezza a meritare quella scommessa che chiamo fede. Lo stupore è il segnale del trovarmi dinanzi al mistero che non posso esaurire o contenere, ma da cui mi sento abbracciato e contenuto. Il mistero santo domanda la mia fede perché ha meritato il mio stupore. È il tragitto evidenziato dai pochi versetti di Atti offertici come prima lettura: Pietro imputa ai presenti di aver ucciso l'autore della vita, rinnegandolo a favore di un assassino. Eppure Dio lo ha risuscitato compiendo le Scritture. Dove è stato perpetrato un delitto, lì il Padre ha operato la nostra salvezza. Questo è degno della nostra incessante meraviglia. Anche il timore, non meno della meraviglia, ci segnala la dismisura e la sproporzione che separa noi da una grandezza che non possiamo manipolare o gestire. Fuori dal conosciuto, oltre il previsto, al di là del ragionevole, il Risorto mi spinge ad accogliere la mia piccolezza di fronte alla grandezza della sua nuova vita.

Posso legittimamente essere preso davanti a lui da ciò che non chiamo terrore, ma piuttosto timor di Dio, senso vivo della mia pochezza e fragilità, immensamente amata. Proprio il timore associato allo stupore chiamo timor di Dio. È la riverenza che non mi fa fuggire e mi disorienta solo fino a spingermi a inginocchiarmi per adorare. Anche le nostre paure parlano di noi, esattamente come ciò in cui crediamo. Anche la paura è un caso serio. È rivelatrice della mia identità: di che cosa ho paura? Che cosa mi spaventa?
Per questo non c'è fede consistente fino a quando il Cristo non visita le mie paure e le redime trasformandole in timore di Dio. Se non avviene questo incrocio, se il Risorto non scende fino agli Inferi dei miei timori inconfessabili rimane un fantasma. Resta una visione sfumata che non può toccarmi veramente e da cui non posso essere toccato. Rimane una compagnia sgradevole. Non l'amico, invece, con cui posso consumare un pasto fraterno (v. 43).
Proprio quando le mie paure si materializzano, ed è inevitabile prima o poi, scopro la consistenza della fede. Quando si affaccia la malattia, quando si avvicina la morte, quando scopro l'amarezza della solitudine e del tradimento, allora giungiamo al banco di prova. Il Risorto non è una presenza inquietante e indefinita. È compagno di strada che riconosco quando posso scongiurarlo di entrare nella mia casa e sedersi per restare con me.

VITA PASTORALE N. 3/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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