V Domenica di Pasqua (B)

ANNO B - 10 maggio 2009
V Domenica di Pasqua

At 9,26-31
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8


CHI RIMANE IN CRISTO
PORTA MOLTO FRUTTO

A differenza del precedente e del seguente, il discorso che si apre in 15,1 e termina in 16,4 non è punteggiato da nessuna replica degli ascoltatori, come se il silenzio degli astanti esprimesse l'atto della interiorizzazione davanti alla parola del Maestro. Non sentiamo più le domande turbate dei Dodici che avvertono l'imminente distacco e il dramma della Passione. Qui tutto ci porta ancora più in profondità: domina la voce del Cristo e la certezza della sua presenza. La maggioranza dei verbi, non per nulla è al presente, almeno fino a 15,25, poiché quanto è annunciato non coincide con promesse lontane ma con l'attualità della Chiesa. Gesù affronta ora l'esistenza in Lui della comunità postpasquale. Tutto avviene come se i credenti, attraverso ciò che Gesù intende dire, facessero ritorno a se stessi per comprendersi alla luce della risurrezione. Che cosa è la Chiesa uscita dalla Pasqua? L'affascinante metafora della vite e i tralci risponde a questo interrogativo. Fin dai tempi remoti, la vite, con l'ulivo e il fico, caratterizzava la vegetazione della Palestina. Per il contadino israelita era il bene più prezioso e il segno di una raggiunta sedentarietà. Nella Bibbia rappresenta anche la sposa, che porta frutto se coltivata con pazienza e perseveranza. Dunque, nella letteratura profetica, venne a simboleggiare molto presto la sposa di YHWH , ossia il popolo di Israele, vite eletta ma anche vitigno degenere e bastardo capace di produrre solo uva selvatica.

Riprendendo questo dato tradizionale, Gesù opera un ardito spostamento. Lui stesso è la vite del Padre. Mentre il quadro simbolico del Buon Pastore aveva bisogno di essere interpretato, quanto alle pecore, ai ladri e ai mercenari, qui l'interpretazione è data assieme all'immagine fin dall'inizio. Tutto è svelato. Ora, il partner di Dio è qui il Figlio stesso, non più il popolo: Lui solo è la vite che porta tralci fecondi. Siamo di fronte a una novità assoluta. Il referente tradizionale - la comunità che Dio riunisce e che deve fruttificare a sua gloria - è mantenuta da Giovanni, ma riempita dell'identità del Figlio. Cristo è la primizia, il capo del corpo che solo in lui ha sussistenza. La differenza con gli altri simboli cristologici è netta: come pane, luce, acqua il Cristo mostrava se stesso come portatore di una salvezza da accogliere. Questa parola di rivelazione situa invece Gesù dalla parte di Israele e di tutta l'umanità. Dopo la lunga storia dei ripetuti appelli di Dio e dei fallimenti nella risposta degli uomini, il Figlio realizza la pienezza delle profezie nella propria persona. Questo spiega anche la scelta del termine greco che allude al ceppo di vite, più che a un vigneto nel suo insieme, come nel caso delle parabole sinottiche. Con la Pasqua un nuovo ceppo è germinato: il virgulto di lesse mostra tutta la propria fecondità. Giovanni traspone la terminologia paolina del "primogenito dei morti": davanti a Dio sta una umanità nuova. In Cristo essa risplende oltre ogni immaginazione. Non possiamo allora concepire impegno o sforzo morale accanto a Cristo. Questo è il difetto del nostro impegno cristiano: sentirci a fianco di Cristo, accanto a lui, schierati per la sua causa. Non esiste invece vita nuova se non in lui, agendo, sentendo, pensando in lui. Come è difficile distinguere vite e tralci, parti di un unico organismo, così la storia della santità cristiana offre una infinita schiera di "altri cristi", uomini e donne innestati in lui, permeati dalla sua vitalità.

Il pensiero allora è quello dell' "uno": i tralci hanno esistenza solo se rimangono "uno" con la vite. Il loro criterio di permanenza nel Cristo è il frutto. Senza Gesù non possiamo fare nulla. In Cristo possiamo portare molto frutto, Suo e nostro, nostro e Suo. Non c'è più differenza. Il riferimento primo per comprendere questa metafora è suggerito dal brano stesso: l'immanenza di Gesù nel Padre e del Padre in Gesù. Non c'è vera comunione se non è comunione trinitaria. Tutto tende all'unità tra noi e Dio. Dal v. 4 al v. 8 il verbo "rimanere" ritorna, non a caso, sette volte. Siamo rimandati all'inizio del vangelo e alla domanda dei due discepoli del Battista: «Maestro, dove rimani?". Allora la risposta si risolse nel seguire Gesù alla propria concreta dimora. Ma la domanda dell'uomo sull'identità del Figlio di Dio viene a trovare risposta solo qui. Il Figlio rimane nel Padre e desidera che noi rimaniamo in lui. Qui il verbo significa "aderire fedelmente". Sembra paradossale invitare i tralci a restare nella vite. Eppure l'uomo è talmente libero da poter scegliere di staccarsi dalla fonte della vita. L'esito è la sterilità. Per quanto possa colpirci l'immagine del fuoco e il giudizio che sempre evoca, tuttavia la tragedia non è la combustione del tralcio. È il suo seccarsi. Siamo, per certi versi, all'opposto della terminologia della sequela offertaci dagli altri tre vangeli. Se questi sottolineano la necessità di seguire Gesù, lasciando tutto e mettendosi sulla strada che egli percorre e soprattutto che egli rappresenta, qui domina la sapienza del "rimanere". La fedeltà consiste nel restare là dove già ci troviamo in virtù della Pasqua. Il Risorto ci ha inglobati nella sua luce. Siamo resi figli e fratelli. La vita nuova è realtà concreta. Tocca a noi "rimanere" dove possiamo portare "molto frutto" a vera gloria di Dio Padre.

VITA PASTORALE N. 4/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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