XVII Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 26 luglio 2009
XVII Domenica del Tempo ordinario

2Re 4,42-44
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15

IL PANE DI VITA
È LA NUOVA PASQUA

La cosiddetta moltiplicazione dei pani è uno dei pochi episodi narrati unanimemente da tutta la tradizione evangelica. Ma, come sempre accade nel quarto vangelo, Giovanni rilegge in modo originale e potentemente dinamico il materiale che proviene dalla memoria storica di Gesù e dalle narrazioni scritte precedentemente. «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei». Questo inciso cronologico permette di contestualizzare l'intero brano giovanneo. Se non troviamo durante l'ultima cena precisi accenni al sacramento eucaristico qui il discepolo amato sviluppa con enorme ricchezza il tema del pane vivo disceso dal cielo. La Pasqua dei Giudei già viene assunta nella prossima Pasqua del Cristo, compimento di tutti i segni. La liturgia domenicale opera allora una felice inserzione sostituendo al racconto marciano della moltiplicazione dei pani quello giovanneo e permettendo così di leggere per esteso in successive domeniche l'acceso scambio fra Gesù e i Giudei che segue all'offerta del segno.

Già i primi quattro versetti uniscono solennità e ambiguità e lasciano presagire dove il Nazareno desidera condurre la folla al suo seguito. C'è molta gente infatti con lui. Ormai il successo è pieno. Ma il motivo, ambiguo appunto, è dichiarato con franchezza: «Vedevano i segni che compiva sugli ammalati» (v. 2). Qui uno dei fondamentali verbi giovannei - "vedere" - non ha ancora raggiunto la piena intensità: pensiamo a come il discepolo amato «vide e credette», presso il sepolcro vuoto di Cristo (20,8). Il "vedere" è chiamato, infatti, a divenire "contemplare". Si pensi alla potente sintesi del Prologo: "E noi contemplammo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Chi vede la carne del Figlio di Dio può giungere, se attirato dal Padre, a vivere quella continua trasfigurazione per cui si percepisce il divino che risplende nell'umano. Ma le folle ancora sono ferme a segni da "vedere", incapaci dunque di interpretare e giungere alla fede autentica.
Nel racconto giovanneo non sono i discepoli a sollecitare il Maestro perché congedi le folle e possano procurarsi da mangiare. È lui stesso a interpellare Filippo ponendo la questione. La necessità di nutrire la gente è già decisa. Il problema è "da dove" -letteralmente - acquistare il pane per sfamarla. Gesù sa ciò che sta per fare e mette alla prova Filippo (v. 6). Il verbo greco è quello classico della tentazione. Nella Bibbia, se è vero che spesso l'uomo tenta Dio piegandolo alla propria volontà, è altrettanto vero che Dio tenta l'uomo, mettendolo alla prova, spingendolo come sull'orlo di un precipizio o conducendolo per una strada impraticabile affinché l'uomo giunga ad affidarsi completamente a lui. Subito la via commerciale, la soluzione dello scambio denaro\alimenti si presenta impraticabile. Filippo lo coglie immediatamente: con molto denaro si concluderebbe comunque poco. Ci sarebbe solo un piccolo pezzo di pane per ciascuno. La situazione dal punto di vista religioso è invece ideale: c'è troppa sproporzione perché l'uomo pensi di cavarsela da solo. È finalmente l'ora di Dio perché si presenta come l'ora della gratuità. Sempre l'uomo commercia e scambia: compra e vende.
Il giovane che si avvicina offrendo cinque pani e due pesci, altro squisito tocco giovanneo, rappresenta il secondo passo della fede. Il primo è riconoscere la propria impotenza. Il secondo è affidare quel quasi niente che possediamo e siamo nelle mani di Cristo. La scelta del ragazzo è impressionante. Là dove ognuno era destinato a soffrire la mancanza di cibo, chi ne aveva per sé lo condivide in nome di un improbabile beneficio generale. Andrea lo afferma con chiarezza: che cosa sono cinque pani e que pesci per tutta quella gente? È solo un gesto di generosità destinato a rimanere praticamente inutile oppure il gesto del ragazzo è invece frutto di una corretta lettura dei segni? Colui che guarisce i malati è solo un taumaturgo o piuttosto l'inviato di Dio che tutto può per il bene del popolo? Deporre tutto ciò che si ha nelle mani di Cristo è il gesto della vera fede. Comprare e vendere non serve a nulla davanti ai bisogni dell'umanità. Servono le mani di Cristo, mani del Padre sulla terra. Ma quelle mani agiranno solo se il poco dell'uomo vi verrà liberamente deposto. È quanto accade e sperimentiamo ogni domenica. Senza l'offerta dell'assemblea - pane e vino - non vi sarebbe eucaristia, per quanto essa sia dono assoluto di grazia.

Il segno si compie, ma viene letto nella direzione sbagliata. Se il ragazzo aveva dato ciò che possedeva, la folla, come Gesù intuisce, vuole prenderlo, afferrarlo e farlo suo. È l'esatto contrario del movimento della fede dove l'uomo si arrende a Dio. Qui è Dio che dovrebbe arrendersi all'uomo. È interessante il passaggio dal «profeta che deve venire nel mondo» (v. 14) al "re" (v. 15). L'inviato di Dio viene come arruolato per le esigenze socio-politiche della comunità umana, la prima delle quali è garantire il sostentamento universale. È il problema del pane, prezioso strumento di controllo e di dominio. La Pasqua di Gesù sarà l'opposto: regalità paradossale e incompresa. Là si compirà il vero Esodo, liberazione da ogni logica mondana di potere. Ma la gente non è ancora pronta a seguire il Cristo attraverso il Mar Rosso della sofferenza e della morte. Vuole che Cristo segua lei piuttosto, come dispensatore di beni essenziali, come Dio "tappabuchi".



VITA PASTORALE N. 6/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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