XXI Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 23 agosto 2009
XXI Domenica del Tempo ordinario

Gs 24,1-2a.15-17.18b
Ef 5,21-32
Gv 6,60-69

LA PAROLA DI CRISTO
UNA SPADA CHE DIVIDE

«Questo linguaggio è duro. Chi può ascoltarlo?» (Gv 6,60). Così, al termine del lungo confronto con Gesù, i suoi uditori chiudono la partita con il Nazareno. In effetti, tutte le parole pronunciate dal Cristo sono un affronto e una sfida alla logica auto-affermativa dei giudei. Essi non riconoscono di aver bisogno di Cristo. Rifiutano che Lui sia rivelazione del Padre e che la sua Pasqua sia fonte di vita. Il dramma che caratterizza l'uomo è possedere la vita, ma non essere la vita. La differenza è enorme. Il senso di fragilità che a volte ci pilota e ci spinge a occuparci solo di noi stessi proviene da questa decisiva distinzione.
Per questo agli occhi dei giudei il gesto eucaristico non ha alcun significato. Non c'è nulla in loro che abbia radicalmente necessità di essere sostenuto. Invece nutrirsi dell'eucaristia è un'aperta confessione del proprio limite e della propria impotenza di fronte alla morte. Non sono desiderabili parole che denuncino questa verità. Se proponessimo oggi le stesse affermazioni sul "pane di vita" all'uomo della strada la risposta non cambierebbe di molto. Se invece a noi il linguaggio di Gesù non pare duro forse è perché non l'abbiamo pienamente afferrato.

«È lo Spirito che dà la vita. La carne non giova a nulla» (Gv 6,63). Questo è il punto. La "carne", qui avvicinabile all'accezione con cui usa il termine anche Paolo, non può condurci da nessuna parte. Se è lo Spirito a dare la vita, essa proviene da fuori di noi. Ci porta invece a credere e a praticare la nostra fede la speranza che esista un'altra vita oltre a quella che progressivamente e inesorabilmente perdiamo. Le parole di Gesù generano un autentico "scandalo" e spingono alla mormorazione (Gv 6,61). Seppure non gradiamo trovarci in situazione di interiore conflitto, la "crisi" mossa dalle frasi del Cristo non va sopita o anestetizzata. La crisi giovannea, intesa come tempo di svolta, è occasione per giungere al nocciolo della verità. Noi tendiamo invece ad accomodare e oltrepassare ogni tipo di tensione perdendo il frutto che nasconde. Quel frutto è magnificamente descritto nei versetti finali del nostro testo. Molti, dopo le radicali affermazioni di Gesù, cessano di seguirlo (Gv 6,66). Comprendono che non hanno in mano loro l'iniziativa. È un altro a reggere il timone. Questa, in fondo, è la fede: accettare di perdere il controllo riconoscere di non averlo mai avuto.
D'altronde, la libertà con cui Gesù accetta di perdere discepoli su discepoli è l'ennesima conferma della grande franchezza con cui egli rende testimonianza alla verità. Davanti all'abbandono di molti, addirittura Gesù rilancia ponendo anche i Dodici di fronte alla medesima possibilità. Ma la risposta di Pietro capovolge il quadro. Potremmo riassumere così la scelta di molti: «Andare da tutti, ma non da Cristo». Invece Pietro vede la sua esistenza ormai orientata verso l'unica possibilità: «Se non da Cristo, da chi si può andare?». Mille altre opportunità svaniscono e scolorano in un attimo. Chi ha parole di vita eterna? La forza dell'eucaristia, la sua capacità di dare vita già opera nelle parole di Gesù. La posta in gioco, come vivere e come morire, spinge verso un discorso nuovo proiettato verso Dio e verso la vita eterna che solo lui possiede. Quella di Pietro è una opzione totalmente libera, minoritaria, complessa, diremmo quasi anti-popolare. Eppure pare quasi dettata da una mancanza reale di alternative.
In effetti, la libertà cristiana si configura proprio in questo modo. Non è possibilità di scegliere, ma è libertà di aderire, libertà di consenso. La vocazione cristiana, non dimentichiamolo, non è mai oggetto di scelta. Ma di consenso. Nessun credente sceglie liberamente fra matrimonio e consacrazione, poniamo, come se fossero due marche di dentifricio a sua disposizione. Ogni discepolo avverte che c'è già un progetto a cui è chiamato appunto ad acconsentire. La libertà umana assurge al proprio compimento nell'istante in cui riconosce e sposa la verità, perdendo il ventaglio di alternative che ha di fronte. Nel momento in cui un uomo consegna se stesso, la propria ragione e volontà al vero bene, in quell'istante è davvero libero. Questo è anche il senso della prima lettura e della secca alternativa che Giosuè pone ad un Israele ormai giunto al possesso della Terra Promessa.

II processo che spinge Pietro alla consegna della propria facoltà di scelta è anzitutto un atto di fede. Pietro ha creduto e dunque ha conosciuto (Gv 6,69). Solitamente noi invertiamo il processo: prima conosciamo e poi forse crederemo. C'è invece tutta una realtà di significati che inizialmente possono essere accolti solo per fede. Se credo all'amore che qualcuno ha per me, come accade nel matrimonio, allora l'amore mi si rivela e io lo conosco. L'amore che ricevo non può mai essere dimostrato empiricamente, fino in fondo. Quando invece lo accolgo per fede, allora sperimento che è vero. La fede è l'unico inizio possibile di un cammino che conduca davvero alla meta e all'approdo. Non posso certo pretendere di partire già dalla meta come unica condizione per mettermi in cammino. Una tale fede non teme la ragione, domanda piuttosto il suo sostegno ma riconosce il proprio specifico insostituibile compito.



VITA PASTORALE N. 7/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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