XXII Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 30 agosto 2009
XXII Domenica del Tempo ordinario

Dt 4,1-2.6-8
Gc 1,17-18.21b-22.27
Mc 7,1-8.14-15.21-23

COMANDAMENTI DI DIO
E TRADIZIONE DI UOMINI

L'odierna pagina evangelica presenta una forte polemica intercorsa tra Gesù e le autorità giudaiche. Essa si articola attorno a una questione fondamentale - come mangiare (v. 5) - poi sviluppata con i discepoli in una seconda: che cosa mangiare (vv. 14-15). La prima consente all'evangelista di presentare dettagliatamente tutti i complessi riti di abluzione che i giudei compivano prima di accostarsi alla mensa. Marco, indirizzando il suo vangelo a non ebrei, ha necessità di fornire chiarimenti su pratiche ignote a pagani. Ciò non toglie che il lungo inciso - persino fastidioso alla lettura - dei vv. 3-4 comunichi una sorta di ossessione del pulito. Paradossalmente, causa il prosieguo del brano, essa si sposa a un'altra sensazione forte: quella di un cuore giudaico tanto preoccupato della purità delle mani quanto incrostato.
La causa consiste in una sostituzione che coincide con un oscuramento: il "comandamento di Dio", sapienza di Israele diretta al cuore è stato annebbiato dalla "tradizione degli uomini" (v. 8). Il grado di incrostazione è denunciato anche dal tono con cui scribi e farisei interpellano Gesù (v. 5). Non è una domanda che interroga per apprendere e riflettere. È una domanda accusatoria che condanna senza attendere spiegazioni.

Il binomio "tradizione di uomini/comandamento di Dio" interpella perennemente ogni comunità cristiana. La domanda è la medesima: quanto le nostre consuetudini e i nostri comportamenti religiosi di singoli o comunità hanno a che fare con il comandamento di Dio? Esprimono obbedienza alla Parola o sanno di stanca ripetizione o pericolosa superstizione? Sono null'altro che "opere della Legge" come le chiamava Paolo indicando lo sforzo manipolatori o con cui l'uomo vuole comprare Dio? L'esito di una tale deriva è quanto Gesù denuncia citando il profeta Isaia: un movimento di labbra che credono di onorare Dio quando invece il cuore è lontano (v. 6). Una religione che dimentica il cuore non ha, però, futuro. Subisce una lenta deriva che sfocia in un continuo giudizio dell'altro.
È significativo che i farisei notino solo l'inosservanza delle norme di purità da parte di qualche discepolo. Sono continuamente centrati sull'errore dell'altro, come un implacabile leguleio. L'errore consiste in una prassi diversa da quella esercitata da loro. Implicitamente, essi sono divenuti il termine di paragone. Non c'è più la Parola. Non c'è più un uomo assieme al suo fratello di fronte al medesimo comandamento divino. Ma un uomo sta di fronte a un altro che lo giudica ergendosi a criterio della vera religione. Il fatto che Gesù parli di "comandamento" non è certo per assecondare una pratica religiosa ridotta a serie di precetti. La questione è un'altra: il comandamento ha una sua oggettività. Mi sta di fronte come imperativo che obbliga a riconoscere un'altra voce, un'altra istanza che non posso cambiare a mio piacimento. Non c'era una semplice indicazione. La Torah non è un insieme di suggerimenti. La Torah è il comandamento che YHWH ha consegnato a Israele perché vivesse autenticamente l'alleanza del Sinai. Ma tutto questo è stato compromesso dai cosiddetti uomini di Dio.

La seconda parte della citazione di Isaia (v. 7) tocca un punto molto delicato. Possiamo intendere l'avverbio "invano" in due modi differenti. I farisei insegnano inutilmente in relazione a quella fonte che è la parola di Dio. Ma insegnano vanamente anche in relazione ai discepoli. Chi insegna e trasmette una religione che dimentica il cuore insegna senza alcun frutto. Infatti, il comandamento di Dio rimane, come Parola ispirata, nei secoli. Il cielo e la terra passeranno, ma non la parola di Dio. Invece ciò che è semplicemente "tradizione", nel senso deteriore del termine, si perde. La storia giudica la nostra trasmissione del cristianesimo. Tante volte abbiamo la sensazione che essa sia "vana". Possiamo giustamente prendercela con un difficile contesto culturale e sociale. Ma riflettiamo anche sulla nostra fatica a motivare certi comportamenti. Tutti lamentiamo che le giovani generazioni in materia di pratica domenicale o di fronte all'alternativa matrimonio/convivenza mostrino tutta la loro lontananza dalla fede.
Ma quando chi entra progressivamente nella vita adulta ci chiede il perché di scelte da praticare per noi ovve e scontate, perché ripetute all'infinito, che cosa sappiamo dire? Che si è sempre fatto così e che le nostre famiglie da sempre hanno praticato la fede nel modo in cui noi continuiamo a farlo. Ma ci risulta sempre difficile mostrare con la vita e con le parole la relazione tra i nostri comportamenti e il comandamento di Dio. A volte pare una religiosità a nostro uso e consumo, che non affascina, che non pone domande, che non sa toccare il cuore. In fondo, la religione propugnata da scribi e farisei potrebbe essere definita "dietetica": difendersi da ciò che potrebbe contaminarmi entrando in me. Gesù capovolge la prospettiva: invita a considerare quanto esce dall'uomo, non ciò che vi entra. L'occhio può smettere allora di fissare la tavola o le mani che prendono il cibo per scrutare invece il cuore.



VITA PASTORALE N. 7/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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