XXIII Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 6 settembre 2009
XXIII Domenica del Tempo ordinario

Is 35,4-7a
Gc 2,1-5
Mc 7,31-37

L'UOMO-DIO DAVANTI
ALLA SOFFERENZA MUTA

Isaia, nell'odierna prima lettura, descrive l'arrivo di YHWH. Egli si prenderà cura delle classi più svantaggiate e dimenticate. Vengono menzionate gravi menomazioni della persona che finalmente troveranno guarigione: ciechi e sordi (ls 35,5) assieme a zoppi e muti (ls 35,6) recupereranno la loro piena umanità. Il deserto in cui sgorgheranno fiumi, in fondo, è proprio la condizione di abbandono nella quale i poveri erano relegati. Isaia non offre solo l'immagine di una irrigazione impossibile per comunicare che cosa significhi l'avvento di Dio. Ci regala anche una metafora socialmente significativa, se così si può dire: là dove nessuno si reca e dove non v'è alcun genere di risorsa, in mezzo ai ciechi, zoppi, sordi e muti, proprio là si concentrerà l'azione divina.
Il vangelo di Marco è pieno compimento della profezia di Isaia. La parte finale del cap. 7 non solo narra la trasmigrazione di Gesù in terra pagana, vero deserto spirituale, ma anche una autentica discesa da parte del Figlio dell'uomo nelle più remote regioni del dolore umano. La guarigione della figlia della sirofenicia (Mc 7,24-30) e del sordomuto nell'odierno brano evangelico rappresentano il contatto con una sofferenza che non ha voce propria per esprimersi. Essa può manifestarsi solo grazie alla voce di altri: la madre presta la voce alla figlia posseduta; misteriosi benefattori conducono il sordomuto a Gesù perché egli imponga sopra di lui la sua mano.

Il dolore che non riesce neppure a manifestare se stesso è il dolore che non ha neanche la consolazione di Giobbe, la consolazione di una preghiera gridata verso e contro Dio. Forse è per questo che Marco si sofferma in modo insolitamente lungo a descrivere i gesti misurati, ma prolungati, che il Figlio dell'uomo compie su questo sofferente incapace di parlare. La dinamica della guarigione sembra seguire due traiettorie divergenti: la prima è la separazione dalla folla. Come potrebbe questo sordomuto apprezzare il contatto che lo salva, se rimanesse immerso nella calca che circonda Gesù? Condurlo lontano è la prima forma di delicatezza e di intimità che Gesù regala a quest'uomo, il quale fatica a stabilire un reale contatto con il mondo che lo circonda. Anche al cieco di Betsaida (Mc 8,22-26) accadrà la stessa cosa. Nella solitudine, l'unico volto che il sordomuto potrà fissare sarà quello del suo guaritore.
L'amore di Cristo non teme né la comunione né la vicinanza. È un amore che sa compromettersi, senza regalare solo alcuni inutili brandelli di compassione. Se, da un lato, l'azione di Cristo conduce quest'uomo lontano da luoghi dove la sofferenza può divenire spettacolo, dall'altro, ci colpisce la fisicità della guarigione. L'azione di Gesù va molto oltre la semplice richiesta dei suoi interlocutori: essi avevano domandato solo che egli potesse imporre la mano sul malato (v. 32). Il contatto con le parti menomate, invece, è intenso e reale: Gesù introduce le sue dita dentro le orecchie dell'uomo e, dopo aver sputato, tocca la sua lingua sempre con le dita, probabilmente bagnate dalla saliva. La parola arriverà soltanto al termine di questo stretto contatto, stabilito con un uomo che non può udire nessun suono e tanto meno una parola. Per questo, siamo invitati dalla narrazione a contemplare nel silenzio i gesti del v. 33, che Gesù compì precisamente nel silenzio, considerando la percezione del malato.

Quello che ci lascia senza parole è, però, il dettaglio eccezionale regalatoci dal v. 34. Capiamo lo sguardo rivolto verso il cielo con cui Gesù stabilisce una sorta di ponte tra il cielo e la terra, tra il Padre e la sofferenza del sordomuto. Ma ci sfugge il perché di quel profondo sospiro che il Cristo emette, dopo aver alzato gli occhi al cielo. Il verbo tradotto con "emise un sospiro", nel NT è sempre attribuito a uomini, mai a Gesù, eccetto in questo passo. Il termine, nel suo significato, oscilla tra l'espressione di un desiderio e la manifestazione di malcontento o fatica. È una sorta di tensione, così forte da "ammalarsi" di insoddisfazione. Paolo usa praticamente lo stesso verbo per indicare il gemito della creazione in Rm 8,22.
Il sospirare di Gesù sembra contenere l'intera gamma di sfumature di questo verbo. In altre parole, il miracolo della guarigione del sordomuto è narrato dall'evangelista con un particolare, il sospiro appunto, tale da far pensare a qualche cosa di "costoso", non tanto per l'onnipotenza del Cristo, ma per la sua divina sensibilità. L'uomo Dio, davanti a quella sofferenza muta, sospira. Il sospiro di Cristo esprime tutta la fatica di chi tenta di portare il dolore altrui. Non è facile capire, né aiutare chi sta male. Il sospiro del figlio dell'uomo sembra un libero sfogo, appello verso Colui che, solo, può tenerci su il cuore. Chi sospira davanti al male non condanna Dio, non lo giudica; ma chiama semplicemente a sé, come sostegno, colui che, un giorno, si chinò su un sordomuto e sospirò. L'amore di Dio, che pulsava nel cuore umano di Gesù e l'amore umano, che pulsava nel cuore divino del figlio di Maria, quel giorno si espressero così. Per noi tutti, udire quel sospiro è quasi baciare la mano che ci guida per il sentiero misterioso della speranza. L'evangelo sembra guidarci però verso un altro sospiro, l'ultimo e il più profondo, emesso fra cielo e terra, con le braccia stese sulla Croce, quando il Figlio dell'Uomo offri la sua vita per noi. Quell'ultimo respiro fu il sigillo della totale condivisione e sopportazione del male. Fu il sospiro che rianimò la gioia sul volto della creazione.

VITA PASTORALE N. 8/2009
(commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


torna su
torna all'indice
home