XXIX Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 18 ottobre 2009
XXVIX Domenica del Tempo ordinario

Is 53,10-11
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

LA GRANDEZZA
CHE NON PERISCE

C'è come uno schema di azione-reazione che si ripete ostinatamente all'interno del secondo vangelo nei capitoli 8-10. Gesù continua a presentare ai Dodici il mistero della sua Pasqua, offrendo tre predizioni della sua passione, morte e risurrezione (Mc 8,31; 9,31; 10,33-34). Sistematicamente i Dodici mostreranno di non capire nulla di quanto il Maestro anticipa, ostinandosi invece a cercare "un posto al sole", diremmo. Dopo la prima predizione era stato Pietro a ergersi come responsabile e padrone della vita di Gesù rimproverandolo per il quadro fosco che aveva dipinto intorno al suo futuro (8,32). Dopo la seconda, a fronte dell'annuncio di una morte umiliante e scandalosa per il Maestro, era avvenuta una consultazione di gruppo per stabilire chi fosse il più grande (9,33-34).
Nel brano odierno immediatamente successivo alla terza predizione, la più estesa e dettagliata delle tre, Giacomo e Giovanni tentano la via "clientelare": chiedono a Gesù di riconoscere e legittimare il loro primato, evidentemente non accettato dal gruppo. Non lo vogliono subito. È sufficiente che accada quando Gesù, probabilmente a Gerusalemme nei loro progetti, otterrà la "gloria", ossia il regno su Israele, con il beneplacito della folla acclamante. La loro richiesta (v. 35) ha la forma della preghiera ma perfettamente "rovesciata": Gesù deve fare quello che chiederanno. Il Padre nostro è capovolto. Non si tratta di fare la volontà di Dio o di chiedere l'avvento del Regno. È Gesù che deve piegarsi ai desideri megalomani dei due.

La domanda è sbagliata alla radice, ma il Maestro lascia che sia esplicitata fino in fondo. C'è una grande saggezza pedagogica nella pazienza di Gesù. L'uomo è infatti la sintesi dei suoi desideri e non si conosce davanti a Dio finché non comprende che cosa vuole veramente. La purificazione del cuore, alle origini del monachesimo, avveniva proprio in questo modo: i discepoli dei padri spirituali e dei grandi monaci dovevano quotidianamente raccontare desideri e progetti alla propria guida. Era una sorta di confessione prima di commettere il peccato, non dopo. Il colloquio spirituale nasce così, come confronto sui desideri più profondi e sulle aspirazioni del cuore. Colpisce la franchezza con cui Giacomo e Giovanni esprimono ciò che hanno dentro. Essi desiderano il riconoscimento della loro eccellenza rispetto al gruppo, dei loro meriti. In fondo, per loro seguire Gesù coincideva con la volontà di realizzarsi socialmente e gerarchicamente. Non accade oggi molto diversamente quando chi non riesce ad affermarsi all'esterno della comunità cristiana per dichiarata mediocrità professionale e umana, tenta di rimediare attraverso qualche paludamento liturgico, costituito da vesti, pizzi o merletti.
Alla gloria socio-politica cui anelavano i figli di Zebedeo viene a sostituirsi una sorta di "visibilità domenicale", sedendo alla destra e alla sinistra del celebrante. Tanto zelo apostolico, sacerdotale e laicale indistintamente, ha molto a che fare con la volontà di essere riconosciuti da qualcuno uscendo finalmente dall'anonimato. Come suggeriscono i Padri, a volte davvero Dio arrossisce delle nostre preghiere. Potremmo domandare la divinizzazione, il dono dello Spirito e vogliamo invece, dal profondo del cuore, piccole accontentature per il nostro orgoglio. Tuttavia, Giacomo e Giovanni, nelle loro fantasticherie, non afferrano come il primato del Figlio dell'uomo nasca dalla sua obbedienza al Padre. Essi non sanno quello che chiedono, come i bambini che vogliono diventare tutti astronauti. Con parole simili, Gesù invocherà l'assoluzione per i suo crocifissori che non sanno quello che fanno.

È la nostra incoscienza che ci salva. I due sostengono follemente di poter bere il calice che berrà il Figlio dell'uomo e di poter ricevere il battesimo che egli sta per ricevere. Questo paradossalmente accadrà. Ma solo per l'infinita misericordia di Colui che accoglierà fino alla fine il calice della volontà paterna, immergendosi, come in un battesimo, nel male del mondo, fino alla Croce, fino al sepolcro. Il male del mondo da Gesù non sarà sfiorato solo con un dito. Egli vi si immergerà totalmente. Il delirio che colpisce Giacomo e Giovanni non li allontana solo da Cristo, ma anche dal resto del gruppo. La frattura è grave. I restanti dieci si indignano. Ma quanto sono diversi da Giacomo e Giovanni? Il male che alberga dentro di noi, visto negli altri, è sempre il più insopportabile. Tuttavia non è così diverso. Il v. 42 presenta chiaramente la realtà dell'ambizione umana.
Ci sono persone che sono ritenute capi delle nazioni. Il loro potere è più o meno frutto di violenza, demagogia e consenso. Essi sono stimati essere qualcuno. Ma qual è la loro vera consistenza? Oltre all'opinione della gente, comprata spesso a suon di favori e inganni, chi sono veramente davanti agli altri e davanti a Dio? Quando la consistenza è solo apparenza, l'uomo deve mantenerla attraverso lo strumento del dominio e della forza. I due verbi del v. 42 hanno una sfumatura di violenta oppressione nell'originale greco. Chi riceve la propria consistenza dal Padre, come il Figlio dell'uomo che è venuto per servire e non per essere servito, sperimenta la vera grandezza. Ogni uomo creato a immagine di Dio desidera essere di più di ciò che è. Non è questo il male. Il male è la via che intraprendiamo per essere di più. La via cristiana è quella del Figlio dell'uomo, ultimo e servo, testimone della grandezza che non perisce, ma risorge.


VITA PASTORALE N. 8/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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