XXXIII Domenica del Tempo ordinario


ANNO B - 15 novembre 2009
XXXIII Domenica del Tempo ordinario

Dn 12,1-3
Eb 10,14-18
Mc 13,24-32

LA SOLIDITÀ APPARENTE
DI CIÒ CHE CI CIRCONDA

La prima lettura, tratta dal libro di Daniele, sintonizza perfettamente la nostra attenzione spirituale sui toni apocalittici che sempre contraddistinguono la fine dell'anno liturgico. In pochi versetti l'autore ci conduce dalla polvere alle stelle del cielo. È una sorta di itinerario che ben prepara l'ascolto del vangelo, ricchissimo di riferimenti alle luci del firmamento. L'incanto della luna piena, nelle notti terse che ci regala l'inverno, ha sempre esercitato un grande fascino sull'uomo di ogni tempo. Da centinaia di migliaia di anni, egli ha levato gli occhi al cielo, estasiato per godere dello spettacolo offerto dagli astri che brillano nel buio. Non meno affascinante ha trovato lo spettacolo offerto dall'alba e dal tramonto del sole con i suoi colori vivi, fiammeggianti. Il sole che arde da miliardi di anni e la luna che risplende nel cielo hanno segnato con il loro sorgere le stagioni dell'umanità. E mentre i popoli e le razze di ogni epoca si avvicendavano sotto la loro luce, essi rimanevano immutati, sempre identici a se stessi. Per questo la volta stellata, la luna e il sole sono diventati simboli di eternità, di ciò che non passa.

Eppure il brano di oggi, con grande coraggio, ci suggerisce che anche le grandi luci del cielo un giorno si spegneranno (v. 24). Tutto avrà una fine. Anche ciò che sembra eterno conoscerà un termine. Il cielo e la terra passeranno, l'universo passerà (v. 31). Solo la parola di Dio rimane, solo la parola di Colui verso il quale cammina il destino dell'universo non muterà, come una "stella polare" che orienta il cammino della storia. La fine di tutto è descritta da Marco con tinte forti. Qui anche Gesù attinge ampiamente alla tradizione apocalittica, così viva al suo tempo. Essa ama esprimersi attraverso frasi enigmatiche e cariche di risvolti simbolici. Anche lei tuttavia non nasce per soddisfare la pura curiosità dell'uomo su come avverrà la fine del mondo. Gesù non voleva rivelare come sarà la fine, ma qual è il fine del nostro universo. L'immagine suggestiva che egli utilizza è profondamente evocativa: una pianta che si risveglia dal letargo invernale e vive la sua primavera.
Le prime gemme non hanno solo la bellezza di una nuova fioritura, sono il segno di una stagione che cambia, dell'estate che arriva con il suo carico generoso di luce e calore. Anche la natura che abbiamo intorno può essere una "parabola" da cui apprendere come vivere lo scorrere del tempo. La storia che viviamo è una pianta che giunge alla sua maturazione. Il destino dell'universo è quello di giungere alla sua fioritura. E la nostra primavera ha un nome solo: "Così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte» (v. 29). Cristo è la pienezza del tempo e il centro del nostro futuro. Marco allora personalizza in un modo estremo l'accadere degli eventi ultimi. Non si tratta di un avvenire anonimo e senza volto, dai contorni confusi e sfumati. La conclusione del versetto focalizza tutto il "sapere" dei discepoli attorno a Colui che è l'alfa e l' omega dei secoli. Egli sarà "alle porte", le dischiuderà, manifestando finalmente tutta la pienezza della sua presenza.

Spesso urta la nostra sensibilità l'affermazione conclusiva della pagina odierna, dove si dice che neppure il Figlio conosce l'ora della fine, ma solo il Padre. In realtà questo difficile versetto ha una grande portata: sta a indicare il carattere di una salvezza che si manifesterà in un momento totalmente fuori dalla storia, improducibile nella storia, tanto improducibile che neppure il Figlio ne conosce il tempo esatto. Il Figlio di Dio incarnato, in quanto uomo e rivelatore agli uomini, non conosce il tempo del Padre, tanto questo tempo è al di fuori di ogni causalità umana. Non si possono fare calcoli e ben lo mostra l'esortazione del v. 28: «Dal fico imparate [...]». L'immagine del fico presuppone un osservatore attento: Dio non usa mai effetti speciali. Chiede a noi di percepire la sua azione discreta e continua. Tutto passerà inosservato, se non sappiamo notare quanto cambia attorno a noi. Se non viviamo nell'attesa, perché mai dovremmo aguzzare gli occhi per scorgere i segni di Dio? Forse troppe volte la routine di ogni giorno ci fa dimenticare il divenire lento ma costante della nostra storia. Essa ci impone un determinato stile di vita.
Noi siamo pellegrini in cammino, ma con il rischio sempre presente di dimenticare la Parola che salva e tramutarci in pantofolai. L'attesa di noi, uomini che camminano fiduciosi, è come l'attesa dell'estate. È il rigore e la durezza dell'inverno a lasciarci protèsi verso una stagione più mite e luminosa. La speranza ha il potere di scaldare la nostra attesa infreddolita, in cui fatichiamo a muovere passi decisi verso il Regno che viene. La solidità apparente del mondo che ci circonda non ci faccia dimenticare che siamo su un treno in corsa. Ciò che purifica e saggia la fedeltà degli "eletti" (v. 27) è precisamente questo distendere la propria speranza fino a un futuro tanto certo quanto sconosciuto nei dettagli precisi. Certamente nessuno verrà dimenticato, anche coloro che la fedeltà al Vangelo ha disperso lontano. Anche coloro che vivono in situazioni di minorità e di fatica. Gli angeli che chiamano dai confini della terra fanno desiderare il momento in cui saremo riuniti come il vero corpo di Cristo, Signore della storia e del futuro senza tempo.



VITA PASTORALE N. 9/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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