Gesù Cristo, re dell'universo - XXXIV Dom. del T.O.


ANNO B - 22 novembre 2009
Gesù Cristo, re dell'universo - XXXIV Dom. del T.O.

Dn 7,13-14
Ap 1,5-8
Gv 18,33b-37

LA REGALITÀ DI CRISTO
È SERVIZIO ALLA VERITÀ

Come già domenica scorsa, anche l'odierna apre la propria liturgia della Parola con un testo del profeta Daniele. Poche righe cariche di allusioni ed enigmi. Concentrano tutta l'attenzione sulla figura di un "veniente". Ha le sembianze di un comune mortale, ma riceve una dignità e una carica non semplicemente umane. Il suo dominio non sarà mai distrutto. Il paradosso attira la contemplazione del veggente che pure non riesce a scioglierlo. Siamo davanti a una nuova verità, che solo il Vangelo sa enunciare con pienezza. Di fronte a Cristo, come già di fronte al misterioso figlio dell'uomo danielico, ogni nozione umana chiede di essere profondamente rivisitata e ricompresa. Quando diciamo che Dio è Padre, non dobbiamo forse rinunciare alla pretesa di esaurire il mistero di Dio in base alla nostra nozione di paternità? Egli è Padre, certo, ma affermando questo abbiamo fatto solo qualche piccolo passo nella via infinita della Sua conoscenza.
Lo stesso dobbiamo dire della regalità di Cristo. Il contesto in cui il brano odierno presenta tale regalità ha qualcosa di paradossale: colui che, al termine dello scambio con Pilato, si definirà re, è inserito in un contesto processuale. Ma non siede, come i re della tradizione biblica, a giudicare le vertenze altrui. Gesù vive il processo in corso come imputato, praticamente condannato. Chi potrebbe credere, in questa umiliante condizione, alla sua regalità? In che modo potremmo vedere all'opera il suo status di sovrano in una condizione simile? Tutto è capovolto, tutto pare muoversi in direzione contraria.

Capiamo dunque perché Gesù replichi a Pilato, che gli chiede: "Tu sei il re dei Giudei?» (v. 33), con una domanda apparentemente fuori luogo: "Dici questo da te stesso, oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?» (v. 34). Di fronte a una situazione del genere, in cui tutto sembra altro da ciò che è, a Pilato e a ogni lettore del quarto vangelo si impone una presa di posizione personale. Il mistero ti interpella, non tollera deleghe alle voci della massa. Ci ritroviamo in una situazione molto vicina a quella riferita dai sinottici, quando Gesù interpellò i Dodici a Cesarea di Filippo: "La gente chi dice che io sia?» e poi incalzò i suoi interlocutori con la vera domanda: "Voi, chi dite che io sia?». Non possiamo mai, di fronte a Cristo, prescindere dalla nostra personale e irripetibile risposta. Se Pilato chiama Gesù "re" per effetto delle dicerie giudaiche, allora non può intendere questo titolo diversamente da un atto di accusa, e la parola "re" coincide con la parola "malfattore".
Ora la questione non è che cosa altri dicano del condannato, ma che cosa Pilato pensi realmente di Lui. È curioso vedere come le parti, nell'interrogatorio, sembrino per un attimo invertirsi. Ora è Gesù a chiedere a Pilato un giudizio di verità, che non sia semplicemente la ripetizione di vuote parole altrui. La reazione del procuratore romano è una brusca difesa con la quale egli cerca di chiamarsi fuori da ogni risposta un poco personale, autentica. Dalla domanda sul "chi", Pilato scivola a quella sul "che cosa" Gesù abbia fatto. Solo ora l'imputato risponde alla domanda precedente e, insieme, anche a quella che il procuratore gli ha appena rivolta: Gesù afferma solennemente la regalità della sua persona, ribadendo che cosa non ha fatto. Gesù ha scelto di non difendersi: nessuno ha combattuto per lui, affinché non fosse consegnato. È proprio la logica del suo Regno, se Pilato e ogni lettore del Vangelo lo vuole comprendere, a determinare quello che sembra incomprensibile. Il tradimento, la consegna, la rinuncia inerme a ogni difesa efficace: tutto nasce dalla misteriosa regalità di Cristo. Ma egli non è il re dei Giudei nel senso in cui lo intende il procuratore romano, perché il suo regno non è di questo mondo.

La successiva domanda di Pilato, secondo lo stile tipico di Giovanni, si muove sul filo di un doppio significato: per il procuratore è forse il riconoscimento di un chiaro capo d'accusa, per noi è quasi una confessione di fede. Gesù non è il "re dei giudei", è semplicemente "re", con tutto il valore assoluto che ora acquista il titolo. Ogni sovrano della terra mantiene il suo titolo in forza del riconoscimento dei suoi sudditi. Non potrebbe essere re senza il loro riconoscimento e il loro atto di sottomissione. Gesù non è come tutti gli altri re: egli è il re dell'universo e solo dal Padre proviene la sua legittimazione. Se lo vogliamo accettare, ciascuno di noi entra in un' ottica diversa da quella dei poteri di questo mondo con i loro giochi di dominio e sottomissione. La regalità di Cristo consiste nel suo servizio alla verità: questo è il cuore della sua missione. Non c'è altra verità, per quanto paradossale, di quella che Pilato ha davanti a lui. Il re dell'universo, il cui regno non è di questo mondo, è gettato in balìa dei suoi carnefici per operare la loro salvezza e quella di tutta la storia. La verità è l'amore che si consegna per redimere. L'ultima frase di Gesù è un appello perenne rivolto al cuore di ogni uomo, al nostro cuore. La verità ci chiama a conversione. Una verità lontana dallo squallore del nostro peccato ci chiama a riconoscere lo splendore della misericordia. Dobbiamo scegliere quale voce ascoltare, a quale logica obbedire: se obbedire ai poteri di questo mondo o consegnarci al re inerme che troneggia dalla Croce.


VITA PASTORALE N. 9/2009 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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