V Domenica di Quaresima (C)


ANNO C - 21 marzo 2010
V Domenica di Quaresima

Is 43,16-21
Fil 3,8-14
Gv 8,1-11

IL PERDONO È LA FORZA
PER NON PECCARE PIÙ

Collegandoci al grande affresco contemplato domenica scorsa, nella parabola del padre misericordioso, potremmo introdurre il brano odierno affermando che, esso pone di fronte il figlio maggiore al figlio minore. È l'incontro che Luca non racconta. La narrazione evangelica terminava con il padre che invita il figlio maggiore a entrare alla festa celebrata per il ritorno del figlio minore. Ma a questo invito non segue una risposta né favorevole né contraria. Il quesito rimane aperto: il fratello maggiore ha poi preso parte alla festa?

Proprio gli scribi, già ricordati nell'esordio della pagina lucana (15,2), nell'odierno brano giovanneo conducono a Gesù una donna colta in flagrante adulterio. La colpa è certa, come quella del figlio minore che la donna ben incarna. Come il figlio maggiore accusa il minore per accusare, in fondo, la generosità ottusa e parziale del padre, così gli scribi intendono processare Gesù più che l'adultera (Gv 8,3-5). La donna è posta fisicamente al centro (v. 3) ma, in realtà, il primo imputato è colui che gli scribi hanno eletto a giudice e arbitro di una situazione chiarissima, che ha già il proprio verdetto. Gli scribi conoscevano la predilezione del Cristo per i peccatori, la sua attenzione ai lontani e cercano di sfruttarla per mostrare come il maestro di Nazareth sia adultero non meno della donna. Se la donna ha infatti tradito il marito, Gesù tradisce la legge di Mosè.
Il v. 6 esplicita come quel tribunale improvvisato sia una farsa per accusare Gesù. Se egli assolve, è condannato dalle autorità giudaiche che lo affrontano. Se condanna, contraddice apertamente la propria innovativa predicazione. Questo processo, uno dei tanti che le tenebre muovono alla luce nel quarto vangelo, è accompagnato dallo strano gesto di Gesù che scrive per terra. Dice il profeta Geremia: «Il nome di tutti coloro che si sono allontanati da Te in terra sarà scritto perché hanno abbandonato la sorgente d'acqua viva, il Signore» (17,13). La legge di Mosè era lo scritto per eccellenza in Israele. Ma a quello scritto Gesù oppone il proprio gesto. Esso interpella silenziosamente non solo l'adultera, ma soprattutto quegli scribi che dovrebbero conoscere le Scritture e i gesti che narrano a proposito di YHWH.
Tuttavia essi altro non fanno che domandare insistentemente il giudizio di Gesù (v. 7). Quante volte la stessa domanda posta al v. 5 - «Tu che dici?» - e ripetuta più volte, come suggerisce il v. 7, viene rivolta a noi. Ci viene raccontato un fatto che sottende una colpa e dunque un responsabile. Il fatto attende il nostro commento. Noi che cosa diciamo? Proprio di fronte alla colpa di chiunque siamo interpellati e lo siamo come credenti. Ebbene, cosa diciamo? Scegliamo la durezza o la misericordia? Ci mostriamo inflessibili o di manica larga?
Gesù sceglie una terza via che si muove tra le pastoie di una misericordia insapore e la durezza di giudizi troppo sbrigativi. Gli scribi pongono la donna di fronte a Gesù e, allo stesso tempo, Gesù di fronte a Mosè. Il Cristo pone però ciascuno degli accusatori di fronte all'imputata come se stessero davanti a uno specchio. C'è un detto dei padri del deserto che recita così: «Se vuoi conoscere i peccati di un uomo, guarda contro chi punta il dito». È esattamente la sfida che lancia Gesù agli scribi e a ogni lettore del quarto vangelo perché non accada mai che il male dell'altro divenga pretesto per non vedere il mio.
In questo senso il male di chi vuole giudicare l'altro è sempre "trave" rispetto alla "pagliuzza" di chi è giudicato. È una sfida coraggiosa che punta diritta al cuore dell'uomo nei suoi intimi segreti. Chi, in fondo, è innocente? Siamo di fronte a una adultera, in evidente peccato. I suoi accusatori rappresentano gli uomini più religiosi del tempo di Gesù. Eppure nessuno raccoglie una pietra per scagliarla contro la donna. Il gesto sembrava scontato visto il teorico squilibrio morale fra scribi e adultera. Gesù non vedrà il progressivo scemare del gruppo, chinato per terra a scrivere la nuova Legge che impone il perdono non solo come clemenza a buon mercato ma soprattutto come riconoscimento della mia colpa che esige lo stesso perdono che non voglio concedere all'altro. Ci sono peccati più evidenti e altri meno, nascosti nei recessi della coscienza.

Ma esistono sia gli uni che gli altri. Il dileguarsi dell'improvvisata corte giudicante spinge lo sguardo del lettore sull'unico rimasto che ancora potrebbe raccogliere una pietra. Egli può scagliarla proprio in virtù della sua assoluta innocenza. Fra coloro che stanno davanti alla donna esiste davvero un Innocente. Ma non condanna nessuno. Egli non lancia pietre, piuttosto "porta" il peccato del mondo, come affermato da Giovanni Battista. È importante cogliere nella prossimità delle feste pasquali come il perdono di Dio sia l'unico a cui non possiamo che arrenderci. Quello del fratello potrebbe consistere in un semplice atto di giustizia, in un profondo esame di coscienza. Non è così per l'Innocente. Chi non attende il nostro perdono, può davvero darci il suo. Egli chiama il male per nome e invita a non commetterlo più (v. 11). Ma mostra quella misericordia che è anzitutto forza per non peccare ancora. Il perdono è la prima energia che ci mantiene nella casa del Padre. È slancio per ricominciare. La donna può camminare ancora, libera, proprio in forza di quella parola che la slega dal luogo della vergogna e della condanna e la restituisce a un avvenire senza angoscia né rimorso.


VITA PASTORALE N. 2/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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