Domenica delle Palme (C)


ANNO C - 28 marzo 2010
Domenica delle Palme

Is 50,4-7
Fil 2,6-11
Lc 22,14-23,56

NELL'OFFERTA DI SÉ
SI PUÒ "VEDERE" DIO

Anche la narrazione lucana della passione e morte di Cristo conserva un suo inconfondibile timbro e colore rispetto agli altri sinottici. L'evento cruciale della storia umana, unitamente al suo epilogo, la risurrezione, ci è consegnato da ogni evangelista attraverso un prisma eguale e differente allo stesso tempo, in cui si rifrange una luce capace di regalarci bagliori irripetibili. Considereremo qui solo alcune peculiarità lucane nel racconto della passio Christi, perché possano essere evidenziate anche all'interno di un commento breve.
Ciascuno di noi assume irrimediabilmente un ruolo di fronte al Cristo che patisce e muore. Nessuno può esimersi dai propri sentimenti e pensieri, quali che siano. Così è anche dei vari personaggi nel racconto della passione. Muovendo da ciò che pare appropriato ma non lo è, incontriamo il dolore e il pentimento delle donne che piangono su Gesù in 23,27ss. Sembrerebbero partecipi al più alto grado del dramma che va consumandosi, eppure il Signore le invita a piangere su se stesse, non su di lui. Esse sono legno secco, bisognoso di rugiada vivificante. Che cosa dunque accadrà loro se così trattano il legno verde? Infatti, i patimenti del Messia altro non sono che lo specchio del male che alberga dentro di noi e il riflesso del nostro peccato. Il volto sfigurato del più bello tra i figli dell'uomo racconta il nostro orrore, non certo il suo.

Per questo, solo il pianto di Pietro redime quello falso e retorico delle donne. Il terzo vangelo aggiunge un dettaglio al più famoso rinnegamento della storia. In 22,61 si dice che il Signore guardò fisso Pietro. È uno scambio di sguardi impressionante, potenzialmente distruttivo. L'apostolo ormai non ha più nulla. Ha perso ogni credibilità, ogni forza, ogni convinzione. È sprofondato assieme alla sua esperienza di sequela. Eppure, davanti allo sguardo di Gesù che evoca la predizione del tradimento ma apre al futuro del perdono, sa sciogliersi in un pianto vero, dal sapore battesimale. Il legno secco inizia a rinverdire e la sofferenza di Cristo manifesta i suoi primi frutti. Pietro ora comprende sulla propria pelle perché il Messia abbracci la Croce caricatagli dal peccato del mondo. Le donne, lungo la via, ancora non sanno farlo. Concentrate sulla correttezza formale del proprio sentimento, edificate dalla propria buonistica capacità di commuoversi, non possono penetrare la verità del gesto di Cristo.
Gesù sale al Calvario per Pietro e per essere accanto anche all'ultimo peccatore, in vita e in morte. Quanto il primo fra gli apostoli sperimenta, sarà vissuto anche da quello che la tradizione chiama il "buon ladrone". In realtà non esistono malfattori buoni. La conversione del malfattore inizia proprio dal riconoscimento del proprio male, dal fatto di essere cattivo e dalla rinuncia a una difesa a oltranza delle proprie azioni. Come affermava Blondel, l'uomo passa l'80% del proprio tempo a giustificare sé stesso. Il primo ladrone invoca ancora una giustizia divina che ponga Pilato dove è finito lui, difendendo il proprio gesto e imprecando contro la malasorte: gli è andata male ma lui, non Pilato, è nel giusto.

Il secondo, invece, fissando Cristo comprende che l'Innocente è in croce non per le proprie colpe, ma per quelle altrui, dunque anche per le sue. È il primo vero ermeneuta della croce, il primo teologo della redenzione. Proprio questa toccante pennellata lucana rivela come ci sia speranza per ogni uomo che si spegne nella solitudine e nell'isolamento. Nessun derelitto può spegnersi senza nessuno a fianco. Colui che un giorno salì sul patibolo per discendere nella morte, assieme a un comune malfattore, non può abbandonare nessun abbandonato, né scordare i dimenticati dell'umanità. Questo è il Vangelo.
Se Pietro ha ricordato le parole di Gesù al momento in cui i loro sguardi si sono incrociati, ora il ladrone invoca lo stesso atto di memoria presso quel sovrano, che, inspiegabilmente, muore come uno schiavo ribelle. Egli sarà accontentato oltre ogni immaginazione. In Dio, infatti, la memoria non è un puro fatto psicologico che conserva parole o immagini di quanto è ormai perso. La memoria di Dio è azione efficace di salvezza, perché nulla di quanto egli custodisce nel cuore, ricordando appunto, cade nel nulla. Il nome del figlio di Davide, raramente evocato nel terzo vangelo, qui assume allora tutta la sua pregnanza: "Dio salva".
Dunque, nell'offerta di sé, espressa anche dalle parole con cui Gesù chiude la sua esistenza terrena (23,46) e nell'assorbimento del male umano è possibile "vedere" Dio. L'incarnazione ha squarciato il velo dell'invisibilità senza tuttavia compierla fino in fondo. Solo quando l'uomo vede quale Dio sia rappresentato dal Figlio appeso al legno, allora può dire di aver conosciuto l'essenza della Trinità fino in fondo. Se anche Matteo e Marco si soffermano sulle folle che, da lontano, osservano i fatti accaduti, solo Luca usa il termine reso anche dalla nuova traduzione con "spettacolo" (23,48). È, in greco, la "theoria", la "contemplazione", suprema attività dell'intelletto umano, secondo Aristotele, quando appunto si fissa sulla verità che non passa. Ben diverso quanto l'evangelista vuole esprimere alla sua comunità: solo nella croce, là dove il Re rinuncia a salvare sé stesso perdendosi per amore affinché coloro che si perdono siano ritrovati, solo allora si "vede" Dio. Nella croce il Padre, nel Figlio e nello Spirito, mostra tutto di sé, senza più celare nulla.


VITA PASTORALE N. 2/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)




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