IV Domenica di Pasqua (C)


ANNO C - 25 aprile 2010
IV Domenica di Pasqua

At 13,14.43-52
Ap 7,9.14a-17
Gv 10,27-30

IL BUON PASTORE
OFFRE LA VITA ETERNA

L'immagine del Cristo pastore è profondamente radicata nel nostro immaginario religioso. Ma non solo: la metafora pastorale è molto presente nelle Scritture giudaico-cristiane. "Pastore" era sinonimo di "re". Ogni monarca, infatti, è pastore di popoli come l'uno che guida e rappresenta i molti, garantendone il benessere o il malessere a seconda che pratichi la giustizia o l'ingiustizia. Ai re spettava l'insensata o tragica opzione della guerra. Questa ha prodotto nella storia massacri inenarrabili. Chiunque lamenti catastrofi che colpiscono e uccidono l'innocente dovrebbe anche considerare l'incalcolabile numero di morti prodotto non da cataclismi imprevedibili e inarginabili ma dalla sola follia umana. Per questa ragione il salmo 23, notissimo componimento pastorale usato con grande frequenza nella liturgia, esordisce così: «Il Signore è il mio pastore», non senza una sfumatura polemica verso tutte le case regnanti di Giuda e Israele.

Solo YHWH è vero pastore del suo popolo, preoccupato del benessere di Israele, non dei propri trionfi. Se era il popolo a morire per il proprio re, qui avviene qualcosa di radicalmente nuovo. Tutto il capitolo 10, in cui è inserito il breve brano odierno muove da questa lieta notizia: il Cristo pastore depone la sua vita per poi riprenderla di nuovo (v. 17). Muore per salvare il gregge. Non è un mercenario. Non sarà il gregge a morire per salvare lui. Il rapporto tra una sola vita e la vita di tutti gli altri ritorna d'altronde con enorme evidenza nelle celebri parole di Caifa: «Meglio che uno solo muoia per il popolo, piuttosto che tutto il popolo perisca» (Gv 11,50). Esse, secondo l'evangelista, non sono solo un chiaro calcolo politico, ma una profezia riguardo alla fine di Gesù. Il Maestro ripropone questa metafora riguardo alla propria identità proprio dopo che i giudei lo hanno circondato domandandogli se sia lui il Cristo o no (v. 24). I suoi interlocutori vogliono chiarezza e franchezza.
È difficile immaginare che l'ammissione di essere l'Unto di YHWH non avesse anche riflessi politici. Non si trattava solo di una questione religiosa. Tuttavia coloro che interrogano Gesù non sono del suo gregge e gli manifestano una notevole resistenza, non ascoltando la sua voce (v. 26). L'appartenenza al pastore, nel nostro testo, si appaia alla conoscenza che il pastore ha di ciascuno di noi. Noi non siamo di Cristo come un orologio o un elettrodomestico appartiene al suo proprietario. Non è possibile possedere qualcuno. Se qualcuno ci appartiene e noi apparteniamo a lui è solo in ragione di un'intima conoscenza permessa da una libera apertura. È l'esperienza che compiamo davanti alla parola di Dio. Essa rivela un continuo paradosso. È datata, antica, ostica in alcuni suoi passaggi. Eppure sa leggere il nostro cuore in modo insuperabile. Noi ascoltiamo la voce di Cristo perché sentiamo che ci conosce. Questa conoscenza scaturisce dall'amore che accoglie e perdona. Per questo include nella conoscenza dell'altro anche tutta la sua fragilità e le sue contraddizioni. Non le teme. Poiché sa perdonarle. La forza regale del buon Pastore consiste nel modo unico in cui penetra le nostre coscienze.
La prima lettura, tratta dall' Apocalisse, riprende l'immagine in modo ancora più mirabile. Il sangue di Gesù lava le nostre vesti e ci purifica. L'amore di Cristo si fa carico della nostra bellezza davanti al Padre. Egli è guida, però, in quanto è agnello. Il pastore è tale in virtù dell'assunzione dell'ultimo posto. Egli, come agnello, riassume ogni mitezza e mansuetudine. Non uccide nessuno. Piuttosto si lascia uccidere. L'immagine offertaci dall'Apocalisse ha un vigore straordinario. Mai cultura o civiltà ha visto un agnello alla guida di un gregge di pecore. Non accade mai che il più debole guidi il più forte e che l'ultimo si metta a capo di chi è primo per diritto. Eppure Gesù inaugura la figura del pastore-agnello. È la nuova creazione, che l'Apocalisse riprenderà attraverso altre immagini.

La forza che ci guida è allora un amore che non si impone. Noi non possiamo immaginare nulla di più forte dell'amore. Eppure l'amore abbraccia come se non abbracciasse e stringe come se non afferrasse. Esso parla alla libertà dell'altro, chiede la sua libera risposta. Se divenisse seduzione o costrizione non sarebbe più amore. Nessuno seguirebbe un agnello per timore o per paura, ma solo perché conquistato dalla sua vigorosa mitezza che conduce alle sorgenti della vita. Quale sia questa vita ci è indicato dal vangelo odierno. È la vita eterna, la vita stessa di Dio (v. 28). Il segno più grande è l'eucaristia che celebriamo ogni domenica. Il pastore è agnello, infatti, perché ci nutre con la sua stessa carne, nutrimento pasquale. Cristo ci è dato nelle mani, perché possiamo comprendere questo donarsi sconfinato. In realtà, nel suo consegnarsi siamo noi a essere in qualche modo presi da Lui e assunti nel Padre. Il vangelo allude a questo gioco di mani nella sua parte centrale (vv. 28-29). Nessuno può strapparci dalle mani del Figlio, perché essere nelle mani di Cristo equivale a essere nelle mani del Padre. Gesù e il Padre sono una cosa sola. Vivere la fede della Chiesa non è allora una appartenenza sociologica come tante altre, ma significa inserirsi nel tessuto delle relazioni intratrinitarie. Noi siamo chiamati a sederci alla mensa stessa di Dio, il quale ci nutre di sé. Là ci conduce l'agnello, nostra guida e nostro sostentamento allo stesso tempo: alle fonti della vita. La Trinità è la fonte della vita.


VITA PASTORALE N. 3/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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