VI Domenica di Pasqua (C)


ANNO C - 9 maggio 2010
VI Domenica di Pasqua

At 15,1-2.22-29
Ap 21,10-14.22-23
Gv 14,23-29

IL FIGLIO SI MANIFESTA
"DENTRO" IL CUORE

Con una scelta non poco arbitraria, l'odierna pagina evangelica muove dal v. 23 presentandoci la risposta di Gesù alla domanda di Giuda, non l'iscariota, contenuta nel versetto immediatamente precedente, omesso dal lezionario. Diviene più difficile comprendere il vero tenore delle affermazioni fatte dal Maestro, senza conoscere l'interrogativo cui dà risposta. Partiamo dunque, nel nostro commento, dalle parole dell'apostolo: «Signore, come è accaduto che tu ti sia manifestato a noi e non al mondo?» (Gv 14,22). Davanti al tema della gloria di Dio compiutasi in Gesù e nel suo innalzamento sulla Croce, fino al ritorno al Padre, Giuda pone una questione non lontana dai nostri pensieri. Perché il Dio di Gesù rimane un Dio minoritario, fuori dalle cronache, difficile a conoscersi, quasi un Dio di pochi, di un gruppetto? In altre parole, perché il gregge di Cristo è sempre un "piccolo" gregge? Il messaggio evangelico così rispondente alle attese e alle nostalgie di ogni uomo non dovrebbe far breccia in tutti i cuori? Gli Undici, nel cenacolo, odono il testamento di Gesù e non possono non domandarsi perché solo a loro sia consegnato un tesoro così inestimabile.

Più che mai i tempi che viviamo suscitano interrogativi analoghi. Tanto del nostro scoraggiamento nasce dal dubbio radicale cui non possiamo sfuggire. È una scelta di Dio percorrere la via della minorità o forse il seme della Parola non è per tutti i terreni e rimarrà sempre e solo fecondo per qualche isolato lembo di terra? Come sempre, nel quarto vangelo, il Maestro capovolge attraverso la risposta l'impostazione della domanda. Egli non muove dall'iniziativa di Dio, ma dalla risposta dell'uomo come premessa indispensabile perché si realizzi l'incontro. Il lessico è quello della più squisita interiorità. Chi ama il Figlio custodisce la sua Parola, come un uomo difende all'interno della propria casa i suoi oggetti più preziosi. La Parola viene a collocarsi al centro della vita, perché è al centro del cuore, nei recessi intimi della coscienza e del pensiero. Il Padre amerà colui che realizza tale custodia fino al punto di venire a lui, assieme al Figlio e allo Spirito, fino al punto da prendere dimora presso di lui. Ritroviamo qui i temi del capitolo seguente, il cap. 15, dove è invece la vite, Cristo, a esortare i tralci a "rimanere" in essa.
Ma qui l'appello è assolutamente al singolare. Non si parla di comunità o assemblea. Tutto è giocato, diremmo, a tu per tu come se il fattore numerico fosse irrilevante. La manifestazione non è al mondo e neppure ai discepoli se non avviene nel profondo del cuore umano. Se afferriamo questo evitiamo di prendere abbagli e vivere facili illusioni davanti a raduni significativi e assemblee gremite, dove potrebbe non accadere nulla tra il singolo e Cristo. Accade di scoprirlo anche in noi, quando verifichiamo in momenti difficili quanto sia labile la nostra adesione al Signore Gesù. Siamo dei cattivi cristiani o potremmo essere definiti semplicemente dei buoni pagani? La dimora di Dio nell'uomo, non l'assembramento numerico, è il termine di tutta la storia della salvezza, dall'interrogativo posto ad Adamo ("Dove sei?") fino allo sconosciuto pellegrino di Emmaus che desidera essere invitato a mensa dai due a cui ha infiammato il cuore.

Il cammino dell'interiorità è significato splendidamente dall'effusione dello Spirito. Il Padre manderà il Paraclito nel nome del Figlio (vv. 25-26) perché l'interiorizzazione del Maestro e del Padre cui appartengono le parole del Maestro sia effettiva. Molto ha detto Cristo mentre era "presso" i discepoli. Ritroviamo qui la medesima preposizione del v. 23. Ma il traguardo è un altro: la Trinità vuole fare dimora "presso" di noi compiendo la missione del Figlio e penetrando dentro all'uomo come l'acqua feconda un terreno impregnandolo di sé. Il tradimento di Giuda mostra come l'essere "presso" Gesù non sia sufficiente. Non è questione di prossimità fisica. Solo quando lo Spirito riempie di sé l'uomo come un Tempio allora la vicinanza materiale al Cristo diviene un autentico sposalizio dell'anima. Non parliamo di religione intimistica né di un approccio individualistico alla fede. Si tratta di comprendere cosa significhi intimità con Dio, reale esperienza di Lui.
In questo senso, come mostrano i versetti successivi, i discepoli potranno affrontare senza turbamento il distacco da Gesù fino a rallegrarsi che Egli vada al Padre cosicché possa venire il Paraclito. In questa ottica non c'è spazio per il turbamento né per il timore (v. 27). La pace di Cristo non è la pace che offre il mondo. Non nasce da una rassicurante presenza fisica, né da consolazioni immediate. Si misura con l'assenza e con una diversa forma di presenza. Il Figlio allora non si manifesta al mondo attraverso segni a effetto, solo miracolistici. Il Figlio si manifesta al mondo grazie alla testimonianza anche di un solo uomo in cui il Cristo viva davvero. L'Epifania di Dio avviene quando il tabernacolo che si dischiude è la vita di un uomo perché questo è il desiderio di Dio: non essere solo accanto o vicino, ma essere "dentro", essere la vita della vita e l'anima dell'anima. La santità cristiana è allora il vero miracolo, è la vera prova dell'esistenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo che scuote le coscienze e pone fino in fondo la questione di Dio perché l'assemblea cristiana non sia una massa impersonale, ma una comunità di salvati.


VITA PASTORALE N. 4/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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