XVIII Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C - 1° agosto 2010
XVIII Domenica del Tempo ordinario

Qo 1,2;2,21-23
Col 3,1-5.9-11
Lc 12,13-21

RICERCARE I BENI CHE
DURANO PER SEMPRE

Sono due le ragioni che spingono l'uomo a quella avarizia insaziabile che è idolatria, oggetto anche della seconda lettura. Non si tratta di cattiveria morale o di povertà intellettuale, ma di altre motivazioni. Deduciamo la prima dalla pagina di Qoèlet propostaci come prima lettura. In essa non ascoltiamo la confessione di un poveraccio o di un mendicante, ma la riflessione di un re, ossia dell'unico che nel vicino Oriente antico riassumeva in sé il massimo del potere, dell'avere, del sapere. Per questo la sua confessione, così attuale anche ai giorni nostri, è particolarmente drammatica. Il non senso e l'angoscia emergono proprio in chi sa e vede, non certo in chi per la propria misera condizione è ancora convinto che possa esserci riscatto nei beni terreni. Se c'è un uomo angosciato è proprio il sapiente. Lui solo è perfettamente consapevole di come le migliori risorse umane siano inutili e vane. L'esistenza è un "vaporoso nulla" , secondo una resa poetica efficace dell'originale ebraico di Qo 1,2.
Di fronte a questo, l'unica certezza sembrerebbe appunto ciò che si possiede e che si tocca, non certo idee, pensieri o riflessioni. Proprio qui sta la novità corrosiva di Qoèlet. Egli attacca anche l'accumulo. Denuncia chi ammassa beni che poi lascia ad altri. È la stoltezza di fondo, apparentemente incontrollabile, che prende il ricco sul finire della vita. Proprio quando il bisogno di risorse si attenua, l'uomo sviluppa un attaccamento quasi morboso a ogni piccola cosa che possiede. Si realizza una sorta di identificazione fra la persona e ciò che possiede. Le cose e la vita vengono a costituire una specie di equazione. Salvare quelle sembrerebbe salvare anche la seconda. Esiste però una radicale differenza. La vita scorre via inesorabile. Non possiamo trattenerla. Possiamo solo amministrarla al meglio. Non ci appartiene, infatti, come invece ci appartengono le cose che riusciamo a conservare. L'accumulo, allora, è una lotta senza quartiere con la morte, ladro impareggiabile che mi sottrae il bene più caro, lasciandomi invece ciò che mai potrò mettere al sicuro: i giorni della vita.

Il secondo motivo è il valore simbolico dell'eredità. Il vangelo ci presenta due fratelli che litigano. Proprio in famiglia un figlio apprende e sviluppa il senso della giustizia, tanto da essere fin dalla più tenera età sensibilissimo a ogni sua violazione. Anche una fetta di torta leggermente più grande della propria, data al fratello dai genitori, crea problema. Ogni cosa divisa in modo non equo rende concreta l'intollerabile sensazione di essere amato di meno, senza alcuna ragione. Che tale sensazione sia realtà o fantasia, non cambia nulla. Rimane il più grande dolore in ragione del quale un figlio rischia di vivere tutta la propria esistenza a credito, convinto di non aver ricevuto ciò che gli spettava. Il momento in cui si riscuote e si divide l'eredità diviene allora l'ultima occasione per pareggiare i conti, con tutte le conseguenze che ben conosciamo: rapporti logorati tra fratelli, liti giudiziarie interminabili, rancori mai sopiti.
In realtà la convinzione che identifica l'amore con le cose ricevute è un'altra terribile illusione. L'amore non è un bene quantificabile oggettivamente. Non si pesa a chili, per cui si può stabilire dove ce ne sia meno e dove ce ne sia invece di più. L'amore è una realtà personale, legame sempre unico e diverso che si sviluppa tra l'amato e l'amante. Nessun genitore infatti ama due figli allo stesso modo. Non amerà uno meno dell'altro. Semplicemente li amerà in modo diverso. Dio ama ciascuno di noi in questo modo. Il suo amore si manifesta nei nostri confronti attraverso la realtà della vocazione. Ognuno di noi ha ricevuto una chiamata unica, confacente alla propria storia e alle proprie qualità. Se in questa chiamata consiste l'amore del Padre, allora nessuno ne è privo. Tutti siamo scelti, chiamati per nome, invitati nella sua vigna. Tutti hanno l'amore che basta loro per vivere.

Ciò che manca ai due fratelli non è certo il sostentamento. Piuttosto, è quanto abbiamo letto domenica scorsa: «Padre, dacci ogni giorno il pane quotidiano». In questa domanda è condensata la realtà della fede. Chi sente Dio come Padre provvidente e lo prega con fiducia non ha bisogno di attribuire alle cose il potere di farlo sentire amato. Piuttosto, in ogni dono scorge il segno di questo stesso amore, senza identificarlo con il dono stesso, quasi fosse più importante il dono del donatore. L'odierno racconto è allora un perfetto commento alla preghiera del Pater, propostaci domenica scorsa. L'accumulo è la disperante reazione all'amore che manca, reazione a un cielo che appare muto, contro il quale si infrange ogni invocazione. Il protagonista della parabola raccontata da Gesù a commento della lite tra i fratelli risulta un uomo autistico, chiuso in se stesso, la cui prospettiva è un disperante monologo, in cui alla domanda (v. 17) segue la risposta dalla medesima voce (v. 18). Non c'è Dio, né Padre, né un fratello alla porta che interpella con le proprie piaghe, come sarà per il ricco epulone, ma una terribile solitudine. L'uomo parla alla propria coscienza senza che vi sia un interlocutore esterno reale. Progetta costruzioni e ampliamenti, prospetta a sé un avvenire roseo attraverso verbi che manifestano una prospettiva solo mondana, assolutamente falsa (v. 19). In tutto questo, non v'è tanto malvagità, ma stoltezza (v. 20). Alla sapienza che riconosce il vero Bene siamo chiamati dall'amore del Padre.



VITA PASTORALE N. 7/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)



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