XXIII Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C - 5 settembre 2010
XXIII Domenica del Tempo ordinario

Sap 9,13-18
Fm 9b-10.12-17
Lc 14,25-33

IL VANGELO È SCUOLA DI
VERA, RADICALE LIBERTÀ

Il tema della "porta stretta" (Lc 13,24) pare riproporsi sotto altra veste anche questa domenica: basta considerare da vicino le severe condizioni che Gesù pone a chi vuole mettersi alla sua sequela. A una serie di detti, seguono due immagini diverse ma complementari, immagini di guerra e di pace, di costruzione civile e distruzione militare che ben riassumono il tenore della nostra vita, torre da edificare ma anche battaglia da combattere. Di nuovo, la porta non appare stretta in sé: la sequela di Gesù non è certo impossibile o inutilmente ardua. Ma chiede coscienza e consapevolezza. L'eucaristia domenicale proprio attraverso la parola di Dio può rinnovare in noi questa coscienza. Infatti durante l'eucaristia domenicale veniamo a trovarci, nel momento in cui è proclamata la Parola, esattamente nella posizione fisica descritta dal passo del vangelo di questa domenica: ci troviamo, cioè, seduti.
È forse uno dei pochi momenti della settimana in cui riusciamo a valutare e a pensare a come sta crescendo l'edificio della nostra fede, di fronte alla provocatoria presenza della Parola e del Pane. Questo è strano, se pensiamo a quanto della nostra vita, invece, è minuziosamente pianificato. Se qualcuno ci domandasse come è organizzato il nostro studio o il nostro lavoro o le nostre vacanze, riusciremmo a rendere ragione dei minimi dettagli, senza neppure stupirci del fatto che egli stia in qualche modo operando una verifica su come investiamo tempo ed energie. Questo è normale. Ora, quando nulla è lasciato al caso anche i dettagli sono importanti, anzi una buona organizzazione li rende persino eloquenti.

Stupisce, invece, pensare alla differenza che incontriamo nell'organizzare la nostra vita di fede. Spesso la nostra preghiera, il nostro rapporto con l'eucaristia e il sacramento della riconciliazione sono lasciati all'improvvisazione: ci confessiamo se capita e spesso all'ultimo minuto a causa di continui rimandi; arriviamo a celebrare l'eucaristia in orario con la comunità, senza ritardi, più per caso che per esplicita volontà. Preghiamo sostanzialmente quando ne avvertiamo il bisogno, in maniera improvvisa e discontinua, così che la preghiera non assume mai il tono disteso e fedele del dialogo con il Padre, ma piuttosto quello del grido, dell'appello più o meno preoccupato che invoca una grazia ritenuta necessaria, e la invoca subito, per differire poi di molto il rendimento di grazie, quando questo avviene. Tutto ciò stupisce se pensiamo che sedere a valutare e verificare è tipico della mentalità occidentale. Siamo uno degli Stati più industrializzati al mondo anche grazie alla capacità di progettare e realizzare con minuzia e precisione. Ma la fede sembra fare terribilmente eccezione perché la confondiamo con il sentimento religioso, con lo spontaneismo dell'anima, come se nulla avesse a che fare con la ragione e la volontà. La fede è grazia. Ma "grazia" non è sinonimo di improvvisazione.
Il campo dove progettare la sequela con più determinazione, stando alla nostra pagina, appare quello delle relazioni: padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle (v. 26). Gesù parla addirittura di "odio". Certamente possiamo intendere il verbo nel senso di "amare meno". Tuttavia dobbiamo collocare il testo evangelico in epoca di persecuzioni, dove la scelta della nuova fede poteva equivalere a rotture radicali. Ciò è vero anche di vicende vocazionali molto più recenti, quando l'entrata in religione comportava il ripudio da parte della famiglia. Gli antichi, parlando di odio o amore, non alludevano alla sfera del sentimento e dell'emotività ma delle scelte concrete. Per amore di Cristo, un uomo può essere chiamato a vivere contrasti molto forti con i propri familiari, come se li odiasse. Il comportamento, in altre parole, dall'esterno potrebbe suggerire anche questo. Si pensi alla tormentata relazione tra Edith Stein e sua madre solo nel secolo scorso. Capiamo allora meglio la metafora della guerra utilizzata al principio del brano.

La vita dell'uomo, infatti, è relazione: con noi stessi, con gli altri, con la natura, con Dio. Solo che viviamo a volte relazioni che rischiano di essere assolutizzate. Quando scambiamo cose o persone o attività per dèi non facciamo che avvelenare noi stessi, le cose e le persone. Il nostro amore diventa possessivo, un amore che rinchiude gelosamente e non tollera privazioni, quasi avessimo caricato di significati eterni ciò che eterno non è, ciò che non può appagare tutta la sete che abbiamo. Capiamo allora anche l'esortazione al distacco dai beni del v. 33. Dobbiamo imparare ad amare in Cristo. Mai una persona può diventare il tutto. Per questo Cristo è così paradossale, ma al contempo così appropriato, nelle affermazioni lapidarie con le quali ci invita a "odiare" le persone a noi care, cioè a non amarle come se fossero Dio. Tra me e ogni fratello sta la mediazione della salvezza operata da Gesù. Per questo non posso amare in modo immediato, senza rischiare troppe volte di possedere, e non di servire le persone che amo. Il cuore umano è creato per amare; per essere riempito non di cose, ma dall'amore stesso di Dio. E non riesce a stare senza amare qualcosa o qualcuno: esso è fatto per il Tu divino, perché ogni altro ci conduca a colui che è l'Altro per eccellenza. L'amore umano, nella sua dimensione autentica è sacramento di quello divino. Portare la croce (v. 27) scaturisce proprio da questa chiara gerarchia.


VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)




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