XXIX Domenica del Tempo ordinario (C)


ANNO C - 17 ottobre 2010
XXIX Domenica del Tempo ordinario

Es 17,8-13a
2Tm 3,14-4,2
Lc 18,1-8

SENZA PREGHIERA
NON PUÒ ESSERCI FEDE

Senza ombra di dubbio, la breve parabola che ci è offerta in questa XXIX domenica del tempo ordinario introduce il tema della preghiera, poi ripreso anche nella domenica seguente, ma allo stesso tempo prosegue e, in qualche modo, conclude un lungo viaggio intorno al tema della fede. Essa non aumenta: esiste o non esiste nella sua radicalità, come ci ricordava la metafora del gelso trapiantato nel mare (Lc 17,6). L'uomo vive nella fede quando si appoggia totalmente al mistero di Dio per quanto possa sembrare "liquido" e inconsistente. Proprio in virtù di tale affidamento, l'uomo arriva a considerare se stesso «servo inutile» (Lc 17,10), dimostrazione della pura grazia di Dio che concede a noi di cooperare al Regno che giunge per i poveri e i diseredati.

Da qui scaturiscono la lode e la gratitudine di cui parlava il vangelo di domenica scorsa. Siamo lebbrosi sanati, ma soprattutto siamo figli chiamati alla salvezza, se maturiamo la nostra scelta di fede (Lc 17,19). Questa, infatti, è la grande domanda aperta. Nove lebbrosi su dieci non hanno compiuto il salto che poteva davvero porre le loro esistenze nel grembo di Dio. Dunque, il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra (Lc 18,8)? Proprio la fede separa radicalmente un uomo dall'altro alla venuta di Dio. La sequenza dei vangeli di queste domeniche ha escluso purtroppo il testo, immediatamente precedente al nostro, riguardante «il giorno del Figlio dell'uomo» (Lc 17,20-37), giorno in cui «due saranno in un letto, uno verrà preso e l'altro lasciato; due donne macineranno insieme: una verrà presa e l'altra lasciata» (Lc 17,34-35). Che cosa distingue due persone davanti a Dio nel momento del giudizio se non la fede con la quale ci siamo o non ci siamo consegnati a Lui?
Il brano dell'odierna domenica continua sul tema del giudizio introdotto alla fine del cap. 17 e sviluppa l'ultimo grande segno della fede, il suo emergere prepotente nella vita dell'uomo: la preghiera intesa come perenne invocazione e fremito incessante. Stanno l'una di fronte all'altra, nella breve parabola narrata da Gesù, una delle figure del potere nell'antichità, ossia un giudice non meglio definito (Lc 18,2), e una vedova, figura invece della debolezza che nulla può operare per far valere il proprio diritto. Per quanto la legge divina tutelasse stranieri, vedove e orfani proprio l'insistenza sulla cura spettante a tali persone rivela quanto fosse facile calpestare la loro causa. L'unica vera speranza per vedove e orfani era la pietà religiosa del giudice affinché assicurasse loro vera giustizia. Non è tuttavia il caso di questo magistrato il quale non teme né Dio né uomini. L'espressione italiana «non aver riguardo per alcuno» indica più esplicitamente in greco l'impossibilità di sentire vergogna o rimorso. Eppure, anche il giudice monolitico cede all'insistenza della donna. È certo la causa da vincere che preme alla vedova.
Ma questa figura si mostra sorretta da una formidabile certezza interiore: la speranza di essere esaudita, anche in condizioni di enorme inferiorità. In qualche modo, ella è come il «servo inutile» (17,10): cosa può rivendicare? È appesa a un solo filo, sull'orlo dell'abisso, come il gelso trapiantato nel mare (17,6). Solo lei può insegnarci allora cosa sia la preghiera, arte della relazione con Dio. La preghiera è naturalmente insistente non perché non conosca interruzioni lungo la giornata né perché sia manifestazione di grande forza d'animo e di volontà. La costanza della preghiera non riposa sulle proprie facoltà, ma sul volto di Dio, giudice ben più clemente di quello protagonista della parabola. Senza preghiera non può esservi fede, non solo perché essa è dono assoluto di Dio, ma anche perché lo scoraggiamento e la delusione supposti dal verbo greco del v. 1 - tradotto semplicemente con "stancarsi"- contrastano potentemente con la tensione interiore di chi sa che Dio è Padre misericordioso e salvatore.

È in gioco un conflitto nel quale attendiamo giustizia di Dio contro il nostro avversario (v. 3). Spettava al cap. 17 suggerire l'identità di questo misterioso oppositore. Egli è colui che, proprio nell'ora della tentazione finale, dell'ultima tribolazione, cerca di allontanare in ogni modo il fedele da Dio. È colui che ci spinge a volgerci indietro, come la moglie di Lot (Lc 17,32). Nella preghiera lucana del Pater troviamo precisamente il riferimento alla tentazione (Lc 11,4). Il completamento matteano, con il riferimento al "male", meglio al "maligno" da cui essere liberati (Mt 6,13) chiarisce bene come l'avversario davvero temibile non sia un collega di lavoro impertinente o una nuora troppo determinata. Il nostro grido, giorno e notte, è causato dal male che ci corrompe e consuma. Noi gridiamo a Dio per il nostro peccato, nei momenti in cui siamo davvero lucidi e consapevoli, non certo per il peccato degli altri.
Non sono le nostre eventuali liti da condominio a costituire il vero problema. Lo comprenderemo ancora meglio domenica prossima, ascoltando la preghiera narcisistica del fariseo al Tempio, prigioniero del proprio egocentrismo. Dio non ci farà aspettare, pazientando davanti alle nostre contraddizioni e lacune (Lc 18,7). Se il giudice è ingiusto, anche Dio in qualche modo lo è, quando giustifica noi peccatori, senza alcun merito. La grande vera contesa si gioca a questo livello. Rimane tuttavia la domanda finale che potremmo parafrase in questo modo: "Quando il Figlio dell'Uomo verrà, troverà la preghiera sulla terra?"


VITA PASTORALE N. 8/2010 (commento di Claudio Arletti,
presbitero della arcidiocesi di Modena-Nonantola)


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