I Domenica di Avvento (A)



ANNO A - 28 novembre 2010
I Domenica di Avvento

Is 2,1-5
Rm 13,11-14
Mt 24,37-44

LE DUE POLARITÀ
DA METTERE A FUOCO


Uno sguardo di insieme al cammino di Avvento che la liturgia ci propone in questo primo anno del ciclo triennale impone un esercizio di ortottica, necessario per riuscire a mettere a fuoco due polarità temporali che vanno tenute distinte, ma che solo insieme ci dicono la verità del tempo. Essa sta, infatti, nella sua duplice dimensione di tempo della vita, che si intreccia tra presente, passato e futuro, e di tempo messianico, che porta con sé una promessa, un desiderio, un'attesa, quella di un giorno senza notte. Non viene scritta un'altra storia, non si viene trasferiti in un altro mondo, non si passa a un'altra vita, ma la storia degli uomini e delle donne che sono entrati nel tempo incontra Dio e trova, alla fine e finalmente, la sua pace.
Lungo tutto l'anno liturgico i credenti celebrano questo tempo messianico come realtà attesa e, insieme, come anticipazione sperimentata, in una tensione che cerca parole e gesti per rinsaldare la fede, aprire alla speranza, convertire alla carità. Per dare cioè alla propria storia e al proprio nome un significato ormai definitivo. Perché, per chi crede, nascere alla vita significa nascere alla vita che non muore. Nelle domeniche di Avvento il vangelo di Matteo, che scandirà con regolarità questo anno liturgico, ci chiede sia di saper guardare molto, molto lontano, nel tempo che non ha futuro, sia di saper guardare verso un passato che mai può passare, perché interpella il nostro presente e ci apre al nostro futuro. Ci chiede cioè di saper vivere il presente come tempo di veglia, tra memoria che non è nostalgia, e desiderio che non è fuga. Di riconoscere cioè nelle pieghe del tempo degli uomini il tempo messianico del Dio-con-noi.

Nella prima domenica di Avvento, la lettura del profeta Isaia e il vangelo di Matteo ci ricordano che il tempo del Dio-con-noi comincia dalla fine. Per questo l'anno liturgico suggella saldamente la sua ciclicità con il discorso apocalittico di Gesù. Dominante nella liturgia della parola dell'ultima domenica del tempo ordinario e della prima di Avvento è, infatti, il richiamo a non subire il procedere del tempo, ma quasi a precederlo. Non è facile capirlo e, tanto meno, è facile riuscire a spiegarlo. E indispensabile il linguaggio della visione profetica e dell' apocalittica. Gesù ama questo linguaggio perché è plastico, efficace, capace di colpire e impressionare e perché, tutt'altro che lontano dalle esperienze quotidiane, è capace invece di coglierne l'intima e sconcertante paradossalità: non abbiamo visto anche noi immagini di diluvio implacabile e feroce incapaci di scalfire la vita di quelli che mangiano e bevono come "ai giorni di Noè"? Non ci domandiamo spesso perché uno viene portato via e un altro viene invece lasciato? Ci appelliamo al caso, al destino, alla fatalità, alla sorte. Parole che chiudono ogni possibilità di discorso perché, in fondo, sono parole che non parlano.
La fede biblica, invece, è parola che parla, non chiude il discorso, lo apre. Per questo, secondo Matteo, l'ultima parola che Gesù lascia ai suoi discepoli come testamento che illumina e dà senso alla sua vita e alla sua opera prima della sua morte è un monito e, insieme, un appello. Gesù chiede a tutti i suoi discepoli, di ogni generazione, che imparino a stare nel tempo, cioè nella vita, nel mondo e nella storia, senza perdere la fiducia che il Signore è colui che viene a fare giustizia. Anche se l'immagine del ladro che viene nella notte può farlo pensare, non si tratta di una minaccia, ma di una promessa. Almeno per coloro che aspettano da Dio la giustizia.

Credere nel Dio dei profeti e nel Dio di Gesù di Nazaret significa sapere che, sempre, si vive "alla fine dei giorni", nell'imminenza cioè della venuta definitiva di Dio. Non possiamo confinare la storia di Gesù semplicemente nel passato, se Gesù ha voluto restituire agli uomini proprio il senso di questa "imminenza" e, con essa, ha restituito a Dio stesso quella libertà che qualsiasi sistema religioso tende invece a confiscargli. L'avvento non è solo tempo di attesa. È riscoperta dell'imminenza della venuta di quel Dio per il quale mille anni sono come un solo giorno. Per questo, per prepararsi al Natale, è necessario ripartire da colui che ancora deve venire, dal Figlio dell'uomo. Avvento significa innanzi tutto aprire la fede alla vittoria di Dio, alla certezza che egli sarà giudice tra le genti e arbitro tra molti popoli, come dice Isaia, alla fiducia che è possibile che le lance si trasformino in falci, che gli strumenti di morte diventino mezzi di vita, che gli empi non trionfino in eterno e che ai giusti venga resa giustizia (2,4).
Anche il tempo dell'attesa è, però, tempo per stare al mondo. Si può usarlo per non accorgersi di nulla, come ai giorni di Noè, e si può usarlo per vegliare, come chi non vuole essere espropriato della propria vita. Si sta al mondo per garantirsi la sopravvivenza, mangiando e bevendo, prendendo moglie e prendendo marito. Figli del caso, del destino e della sorte. Si può mangiare e bere, prendere moglie e marito rivestendosi del Signore Gesù, come chiede Paolo ai cristiani di Roma (13,14). Gesù lo lascia come ultimo comando. Vegliare significa tenersi pronti. Significa fare dell'attesa il tempo della consapevolezza: il tempo è di Dio, il mondo è di Dio, la vita è di Dio.

VITA PASTORALE N. 9/2010
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)




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