III Domenica di Avvento (A)


ANNO A - 12 dicembre 2010
III Domenica di Avvento

Is 35,1-6a.8a.10
Gc 5,7-10
Mt 11,2-11

AFFIDARSI AI SEGNI
PER RICONOSCERE GESÙ

Più di tutti gli altri evangelisti Matteo è preoccupato della continuità tra giudaismo e fede in Gesù di Nazaret. Si rivolge infatti a una comunità giudeo-cristiana e, soprattutto, in un momento particolarmente delicato. I rapporti tra i cristiani che provenivano dalla fede giudaica e i giudei erano tesi, le due comunità andavano verso una separazione dolorosa dopo alcuni decenni di coesistenza. La domanda incalzante a cui Matteo deve quindi rispondere riguarda il bagaglio di fede e di tradizione religiosa che i suoi cristiani hanno conservato e a cui non intendono rinunciare. Di questa situazione il confronto Giovanni-Gesù costituisce, evidentemente, una raffigurazione eloquente: come considerare il grande profeta e con lui tutto il passato religioso di Israele? La testimonianza di Gesù su se stesso e su Giovanni rappresenta, allora, una delle pagine evangeliche in cui l'antica tradizione ha conservato un'importante riflessione sulla continuità, ma anche sulla disparità tra Giovanni e Gesù. Il testo è un dittico in cui, nella prima scena, il rapporto tra Giovanni e Gesù è visto da parte di Giovanni e, nella seconda, lo stesso rapporto è visto invece da parte di Gesù.

La manifestazione del regno non ha nulla di sconvolgente, il Messia non viene su carri di fuoco. Per riconoscerlo bisogna affidarsi alla logica dei segni. È questo che Gesù manda a dire a Giovanni. Lui aspettava un personaggio potente, un Messia con in mano il ventilabro che avrebbe finalmente ribaltato l'arroganza della giustizia mondana. Gesù invece gli manda a dire che i segni del Messia sono altri. Lo avevano detto già i profeti: la giustizia del regno messianico passa attraverso la misericordia, attraverso il risarcimento di piena umanità a coloro che ne sono stati privati. Il regno è reintegrazione nella piena umanità di coloro che hanno dovuto piangere per le loro sofferenze. Siamo nel clima delle beatitudini. Non a caso, le parole di Gesù culminano in una beatitudine che, per Matteo, rappresenta il cuore del problema: «Beato chi non trova in me motivo di scandalo» (11,6).

Gesù si presenta con forza come colui che ha operato i segni messianici: ma perché allora tanti occhi ancora non vedono, tanti zoppi ancora non saltano, tanti muti non gridano? E si potrebbe continuare con un elenco interminabile: non è forse vero che, a volte, le notizie del telegiornale mettono a dura prova la fiducia in un Dio che dice di essersi messo dalla parte degli ultimi e di difendere il povero e la vedova? Davvero, forse, il Messia deve ancora venire. La situazione di Giovanni ben esprime il dubbio di Israele di fronte a Gesù, lo scetticismo di chi si rifà al linguaggio delle visioni messianiche, secondo le quali il deserto fiorisce e sofferenza e bisogno vengono finalmente azzerati. Lo dirà il vecchio Simeone, custode fedele del culto del Tempio, di fronte alla nascita del Messia: Gesù è pietra di inciampo, motivo di scandalo (Lc 2,35).

Dove si compie allora la profezia, se ancora tanto dolore e tanta ingiustizia impregnano la storia? A ben guardare, tra le attese visionarie di Isaia e la beatitudine di Gesù, ha fatto irruzione una grande novità. Ed è decisiva. Ai poveri è annunciato il Vangelo: è questo il segno messianico per eccellenza a partire dal quale tutti gli altri segni trovano il loro vero significato. L'era del regno è cominciata perché l'annuncio della salvezza arriva ormai ai poveri, cioè a coloro a cui il diritto alla vita sembrava essere stato requisito dalla malattia: cecità, lebbra, sordità, che condannavano all'emarginazione e all'elemosina, ma addirittura anche la morte, che condannava al deserto dello Sheol, sono la steppa che esulta e fiorisce grazie all'annuncio del Vangelo.

La seconda parte del brano contiene l'elogio di Gesù a Giovanni, il riconoscimento che in lui la profezia di Israele ha raggiunto la sua pienezza. Anche, però, il suo termine. Egli non è altro che un precursore: anche il più grande di tutta la storia religiosa di Israele rimane sempre al di qua della soglia del regno. L'instaurazione del regno ha avviato qualcosa di radicalmente nuovo e qualsiasi continuità deve fare i conti con questa frattura. Ai giudeo-cristiani della comunità matteana non viene chiesto di rinunciare al proprio passato, ma di scegliere tra la speranza in un futuro ancora da attendere e la speranza in un futuro già iniziato.

Il Dio di Gesù, però, non è il Dio delle certezze degli antichi manuali di teologia. È il Dio della Bibbia che attesta e trasmette, testimonia e comunica che la forza della fede non sta nelle certezze. Il Dio che si rivela nella storia degli uomini non si sottrae, infatti, all'ambiguità e all'incertezza. La storia della promessa, che va verso l'avvento del Messia, ma anche la vicenda umana del profeta di Nazaret fino alla sua morte, restano segnate dall'ambiguità, dal dubbio, dal continuo interrogativo: sei tu o dobbiamo aspettare un altro? Avvicinarsi al Natale significa andare verso l'annuncio di una "grande luce". Una luce che lascia per ora solo intravvedere, però, la profondità del mistero: se Gesù era il Messia, perché il mondo non lo ha riconosciuto? Perché ciò che lui ha fatto, cioè i segni prodigiosi che accompagnavano il suo messaggio, non hanno spazzato via i dubbi e le incertezze? Neppure a Giovanni, il precursore, è stato risparmiato il dubbio. E forse c'è più fede in alcune domande che in tante affermazioni solenni.

VITA PASTORALE N. 10/2010
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)




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