Santa Famiglia (A)


ANNO A - 26 dicembre 2010
Santa Famiglia

Sir 3,2-6.12-14
Col 3,12-21
Mt 2,13-15.19-23

GESÙ, L'ATTESO DAL
POPOLO DELL'ELEZIONE

Il cosiddetto "vangelo dell'infanzia", con cui Matteo apre la sua narrazione della vicenda di Gesù di Nazaret, traduce in narrazione la dichiarazione di fede su Gesù come Messia di Israele. Si compone di brevi racconti che hanno lo scopo di rivelare come e perché Gesù è l'inviato di Dio, l'Atteso dal popolo dell'elezione. Scritti per un pubblico che conosce molto bene le Scritture di Israele e che si domanda se davvero in quell'uomo di Nazaret di cui viene annunciata la morte e la risurrezione è possibile riconoscere il compimento delle promesse di Dio, sono dunque racconti ad alta densità teologica che solo la successiva ignoranza scritturistica ha ridotto a puerili storie fantastiche. L'insistenza sulla "famiglia di Gesù", d'altra parte, ha sensibilmente spostato il centro intorno a cui gravitano i racconti evangelici, preoccupati certamente delle "origini" di Gesù, non però in senso anagrafico.

Presentata come possibile modello di una famiglia qualsiasi, che vive in ogni tempo e in ogni luogo, oppure idealizzata fino a diventare immagine di una relazione "trinitaria" umanamente praticabile, la famiglia di Nazaret non svolge più il ruolo che le assegnano i racconti evangelici. Storie di sogni e di angeli, è vero, ma soprattutto storie di dolore. Un dolore che richiama e rievoca il grande dolore nel quale il popolo di Israele è venuto alla luce, le doglie della sua elezione a popolo di Dio, lo sgomento di una scelta insindacabile, che porta con sé anche un peso di sofferenza perché rende diversi e, in qualche misura, sottrae dalla logica a cui tutti gli altri popoli sottostanno. Nelle vicende che accompagnano la nascita di questo bambino, ci dice il racconto di Matteo, si riproduce quella che è stata la genesi del popolo di Dio. Ed è questo il modo forte che l'evangelista ha per trasmettere ai suoi cristiani il messaggio decisivo: credere in Gesù significa continuare a stare nella fede dei propri padri, significa continuare a sentirsi parte del popolo dell'elezione.

Il testo del Siracide ci ricorda, d'altra parte, che il rispetto per il proprio padre e la propria madre è un comando di Dio. Solo in parte, cioè, risponde a bisogni affettivi e a esigenze giuridiche. E il quadro domestico tracciato dalla lettera ai cristiani di Colossi apre queste regole a una reciprocità inedita. In un momento come il nostro, in cui viviamo il collasso dei sistemi patriarcali, non può forse proprio la paternità di Giuseppe indicarci che la ragione e il fondamento dell' onore verso il proprio padre stanno nel fatto che, grazie a lui, siamo inseriti in una vita che è storia di Dio con gli uomini? Per Matteo il protagonista assoluto è Giuseppe, il discendente di Davide. Guidato dall'ispirazione di Dio, è lui l'intermediario della salvezza e, in quanto capo della famiglia, svolge lo stesso ruolo degli antichi patriarchi. A partire da lui, dalla sua disponibilità e dalle sue decisioni, la storia di Dio diviene possibile.
Giuseppe iscrive la vicenda di quel bambino dentro la storia di un popolo che ha accettato di lasciarsi guidare da visioni e profezie, da oracoli e rivelazioni. Credere significa allora affidarsi a stupidaggini che non hanno fondamento in alcun tipo di razionalità? Molte delle storie bibliche sembrano favorire il cortocircuito tra fede e ragione e credere ad angeli che appaiono in sogno viene considerato equivalente a credere che gli asini possano volare! Invece, la forza di questi racconti sta proprio nella loro spiccata razionalità. Tutt'altro che fantasiosi e puerili, richiedono un tacito riconoscimento reciproco: chi racconta sa molto bene che chi ascolta non è né sprovveduto né alienato, come chi ascolta sa molto bene che chi racconta non intende spacciargli per vere cose insensate. In questa logica, allora, entrare nel racconto significa proprio capirne la razionalità profonda, perché anche un gioco di evocazioni può tradursi in un invito a capire e ad argomentare.

Per chi si domanda il senso della propria appartenenza di fede e della propria apertura alla persona e al messaggio di Gesù di Nazaret, Giuseppe rappresenta allora il momento di passaggio tra la fede antica nelle promesse e la nuova apertura all'annuncio del compimento. E come non l'ha fatta mancare a Giuseppe, Dio non farà mancare alla comunità dei discepoli di Gesù la rivelazione necessaria per arrivare all'intelligenza della fede. Giuseppe è colui che, da vero israelita, cerca di verificare la messianicità di Gesù all'interno della storia del suo popolo. Storia di rivelazione di Dio e non solo susseguirsi di fatti legati tra loro dal vincolo causa-effetto di cui, anzi, la rivelazione di Dio rappresenta la sospensione, come il sonno rappresenta una sospensione della vigilanza.
Di fronte al tribunale della ragione è certamente ingenuo e sprovveduto chi trasforma un racconto a forte carica evocativa e simbolica nella cronaca di un fatterello realmente accaduto, ma anche chi ritiene che all'essere umano sia permesso un unico tipo di razionalità, quella chiamata sbrigativamente "scientifica", è altrettanto ingenuo e cade nell'irrazionalità della sua stessa pretesa. Il "sogno di Giuseppe" significa che non si può capire Gesù come Messia di Israele se non si segue la razionalità storica che collega la sua vita di uomo di Nazaret alla storia di quel popolo che ha costruito la propria identità collettiva intorno al convincimento che la vita sia il frutto di una promessa di Dio.

VITA PASTORALE N. 11/2010
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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