Natale del Signore (Messa del giorno)


ANNO A - 25 dicembre 2010
Natale del Signore (Messa del giorno)

Is 52,7-10
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

LA FEDE È RISPOSTA A
UNA LUCE CHE ILLUMINA

Gli evangelisti Matteo e Luca presentano l'evento della nascita di Gesù con uno stile narrativo, "raccontando" cioè il fatto straordinario della venuta nel mondo del Messia. Il quarto evangelista sceglie invece tutt'altro stile. Per Giovanni la venuta di Gesù significa l'incarnazione del Verbo di Dio, di colui che era presso Dio ed era egli stesso Dio. La solennità e la serietà con cui il quarto evangelista ci propone di riflettere sul Natale, si scontra forse con la pressione sociale che impone a questa festa ben altri significati.

Il prologo del quarto vangelo possiede una ricchezza di significati pressoché inesauribile. Si intrecciano una pluralità di temi, si rincorrono affermazioni potenti, si lasciano intravedere possibilità di sviluppi teologici ulteriori, in un crescendo espositivo non privo di pathos e non esente da coloriture drammatiche. All'inizio del suo vangelo, Giovanni vuole dirci che quanto egli sta per raccontare, cioè la vicenda di Gesù di Nazaret, è qualcosa che può essere preso in considerazione, spiegato, capito, accettato soltanto se «si nasce da Dio». Non agli occhi umani, non al cuore umano, non ai nostri presupposti culturali e neppure alle nostre presupposizioni religiose è possibile cogliere il mistero del Verbo che si fa carne e riconoscere in Gesù di Nazaret la luce vera che viene a illuminare ogni uomo. Soltanto agli occhi della fede questo è possibile.
E la fede - lo dirà insistentemente Giovanni nel suo vangelo - viene solo dall'alto. Non ci può essere nessuna affinità, nessuna contiguità, nessuna appartenenza, né di popolo, né di religione, che possano favorire l'accoglienza di Gesù. È un discorso duro, che non lascia spazio a concessioni di nessun tipo. Solo la fede stabilisce una sorta di "consanguineità" con Dio che consente di capire la logica della sua venuta nel mondo, la logica della storia della salvezza che si iscrive nella storia del cosmo e nella storia degli uomini per portarne alla luce l'inizio e la fine, l'intenzione originaria e il culmine definitivo. Per Giovanni l'incarnazione del Verbo ha lo stesso valore del gesto originario con cui Dio ha dato inizio al cosmo e alla storia. Anzi, proprio la vicenda umana di Gesù porterà definitivamente alla luce quanto Dio continua a compiere fin dalla creazione del mondo.

Dio è parola: si tratta di una delle definizioni più straordinarie di Dio. Non soltanto Dio parla, ma Dio è parola. Cioè è condizione di rivelazione, è presupposto di relazione, è generazione di consenso. Siamo convinti che il grande compito della fede sia "parlare di Dio" oppure "parlare con Dio". E, certamente, senza "parlare di Dio" e senza "parlare con Dio", la fede non si nutre, non si chiarifica, non arriva a coincidere con la vita. Giovanni ci impone però di ricordare che, prima di "parlare di Dio" o di "parlare con Dio", credere significa riconoscere che Dio è parola. Che Dio, cioè, rivela se stesso, e nessuno getta luce su di lui, perché solo da lui viene la luce.
La fede non si fonda su misteriose ed enigmatiche supposizioni, su presunte illuminazioni, su supposte visioni straordinarie. La fede è risposta a una parola pronunciata, a una luce che illumina ogni uomo. Gesù non è una ipotesi fantomatica. È un uomo attraverso il quale la parola si è fatta carne ed egli ha parlato e operato davanti agli occhi di tutti.

"Eppure". L'inno alla luce che introduce la narrazione della storia di Gesù di Nazaret si colora di toni cupi e la presentazione della rivelazione agli uomini sarà scandita, lungo tutto il quarto vangelo, da un contrappunto carico di dolorosa consapevolezza. Per Giovanni il grande mistero non è la fede, ma l'incredulità. Come è possibile non riconoscere in Gesù la rivelazione di Dio? Come è possibile che proprio coloro che dovevano essergli più affini per cultura e, soprattutto, per appartenenza religiosa, abbiano messo in campo un'opposizione così totale e, al contempo, così cieca, irragionevole nei confronti della sua parola di verità? In quel termine "eppure" c'è, in fondo, tutto il nodo teologico del quarto vangelo. Che è il nodo profondo dell'esistenza umana. La luce che viene per illuminare, scatena l'opposizione delle tenebre; la parola che viene per rivelare, scatena la contraddizione; Dio che abita finalmente in mezzo agli uomini, scatena il rifiuto.

In questi anni di crisi le feste natalizie non sono più un'esplosione di luci e di consumi perché la quotidianità della vita obbliga a essere, se non altro, più pensierosi. Come l'antica profezia post-esilica (ls 52,9s.) e tutti i "diversi modi" (Eb 1,1) in cui Dio ha parlato, anche la sua ultima parola, il Figlio, ha fatto i conti con il rifiuto, l'opposizione, la croce. La vittoria non sta all'inizio, ma alla fine. Dopo la croce, non prima. Dopo il combattimento con le tenebre, con la cecità, con il mondo. Solo la Pasqua restituisce al Natale la sua verità più vera. Il mondo può provare a colorarlo, a caricarlo di buoni sentimenti, ad attribuire a esso significati scintillanti. Tanto fracasso non riesce, però, a nascondere che la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. Credere, essere dei "suoi", sentirsi generati da Dio e vedere la sua gloria costa il prezzo del dolore per il mistero che accompagna l'incedere della luce e la rivelazione della verità. Anche questo dolore è "evangelo".

VITA PASTORALE N. 10/2010
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)




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