V Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 6 febbraio 2011
V Domenica del Tempo ordinario

Is 58,7-10
1Cor 2,1-5
Mt 5,13-16

LA FEDE TRACCIA
UN PERCORSO VITALE

Uno degli adagi della teologia e dell'omiletica cristiana è sempre stato quello dello stretto rapporto tra indicativo e imperativo. Quella che, con grande efficacia, è stata definita la "cattedrale semiotica", costruita dal cristianesimo nascente e depositata in tutti gli scritti del Nuovo Testamento, ha preso infatti forma in termini dichiarativi e in comandi etici, in formule liturgiche e in istruzioni parenetiche, in memorie storiche e in attualizzazioni pastorali. Perché già ai cristiani delle prime generazioni è apparso immediatamente chiaro che la fede in Gesù Cristo trasmessa attraverso la predicazione deve diventare un percorso vitale condiviso, una rivelazione a cui fa seguito un impegno, un kerigma che converte in profondità la vita e incide nella storia.

Subito dopo l'incalzante sequenza di beatitudini che fornisce al primo dei cinque discorsi del vangelo di Matteo, quello della montagna, una introduzione di straordinaria forza retorica, la dinamica strutturale tra rivelazione di Dio e obbedienza del popolo, che ha caratterizzato l'alleanza sinaitica, trova un efficace corrispettivo, sia pure formulato nel linguaggio sapienziale familiare al maestro di Nazaret, nelle similitudini del sale e della lampada. Due metafore che trovano nel detto finale sulla luce la loro piena esplicazione.

Non si può pretendere di diventare sale, oppure credersi luce da soli: si può solo accettare di esserlo oppure rifiutarlo. Ciò significa allora che, prima che un dovere etico, essere sale e luce appartiene alla gratuità del dono ricevuto. Come Israele non ha scelto di essere popolo di Dio, così i discepoli non hanno scelto di essere sale della terra. Lo sono e basta. Questo non diminuisce la responsabilità nei confronti del dono ricevuto, ma la connota in termini profetici come affermazione non di sé, ma della giustizia divina. Può sembrare ovvio, forse, ma non lo è tanto, visto che proprio intorno al rapporto fede-opere i cristiani sono stati capaci di spaccare in due l'intero mondo occidentale.

La questione della visibilità dell'impegno nel mondo da parte dei discepoli di Gesù è, d'altra parte, un problema scottante e perennemente aperto. La faticosa quanto complessa storia delle nostre Chiese ce lo dimostra almeno quanto il confronto attuale sui nuovi modi possibili di «essere nel mondo senza essere del mondo». Non sempre, infatti, le opere buone sono "trasparenti", lasciano cioè vedere il volto del Padre che è nei cieli. Eppure, le Chiese hanno attraversato la storia e hanno consentito che le tracce di Gesù di Nazaret e del suo messaggio nonché l'annuncio della sua morte e della sua risurrezione superassero i secoli proprio grazie a coloro che non hanno reso il sale della testimonianza insipido.

II ministero apostolico di Paolo riveste, al riguardo, valore esemplare. Qual è il sale? quale la luce che davvero può illuminare il mondo? Non ci può essere spazio per nessuna forma di aggressività, di protervia, di autocompiacimento: i simulacri che sostituiscono al messaggio della croce il potere suadente della parola o quello seducente del denaro possono anche fare proseliti, ma non cambiano il mondo. Tutta la vicenda cristiana attesta che la fede in colui che è morto ed è risorto resiste a ogni forma di populismo e che una testimonianza che alza la voce e si impone con la forza ha, forse, un impatto sulla storia dei fatti, ma non fa maturare invece nulla sul piano dei valori. Tutte le volte che la croce è stata strumentalizzata, tutte le volte che è stata considerata l'elsa di una spada o la giustificazione per un sopruso, il mondo è andato peggio, non meglio.

Il linguaggio profetico di Isaia non va frainteso. Non si tratta di un invito a compiere caritatevoli azioni individuali. Il profeta parla al popolo nel suo insieme, ed è parola di consolazione e, insieme, programma di vita. Per Israele il tempo della fiducia negli eserciti e nei regni è ormai finito, la deportazione e l'esilio hanno insegnato che la verità della fede sta da altre parti rispetto alle pretese mondane. Non si tratta però assolutamente di ritirarsi nel minimalismo di una quotidianità che basta a se stessa. Sarebbe come mettere una lampada accesa sotto il moggio. La domanda profetica diviene ancora più incalzante: perché quanto vale per la testimonianza degli individui non deve diventare una legge di vita per un intero popolo? Evidentemente, l'amore non si impone per decreto e grande resta il mistero dell'umana libertà e della effettiva disponibilità.

Essere sale della terra e luce del mondo non significa garantirsi un biglietto individuale di ingresso per il paradiso. Significa far luce a tutti quelli che sono nella casa. Nell'anno delle celebrazioni per la conquista dell'unità nazionale sarebbe forse troppo chiedere a un Paese che spesso si vanta di essere cattolico di interrogarsi su quanto, per dirla con Isaia, lottiamo contro l'oppressione o su quanto il nostro parlare, tanto pubblico che privato, sia empio? O di domandarsi se è davvero per colpa della secolarizzazione che gli uomini non rendono gloria al Padre che è nei cieli e non, piuttosto, perché non vedono le nostre opere buone? Nel suo inquietante realismo, l'immagine del sale che viene calpestato perché ha perso la sua funzione colpisce nel segno: se la minestra è scipita, non è certo colpa della minestra.

VITA PASTORALE N. 1/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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