VI Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 13 febbraio 2011
VI Domenica del Tempo ordinario

Sir 15,15-20
1Cor 2,6-10
Mt 5,17-37

CRISTO INVITA A FARE
UNA SCELTA RADICALE

La ricerca della sapienza ha significato per Israele la ricerca della libertà. Per questo Paolo può considerarla una sapienza che non è di questo mondo e che non può appartenere ai dominatori di questo mondo. Una lunga pedagogia storica ha portato Israele a sperimentare un rapporto con Dio che si stabilisce e si rinsalda solo nella libertà. Una libertà progressiva, che va dalla schiavitù dell'Egitto all'appropriazione di una terra, dall'autonomia politica alla deportazione, dal ritorno nel paese della promessa alla diaspora in tutti i luoghi della terra: la fedeltà di Dio è scuola di libertà.

Dovendosi rivolgere a una comunità fortemente legata alla memoria dei suoi padri, Matteo sente in modo tutto particolare la necessità di presentare il messaggio di Gesù non in opposizione, ma in continuità con quello mosaico. Nel solco della grande tradizione biblica, Gesù presenta l'osservanza di tutta la legge come imprescindibile scuola di libertà. Essa va messa, però, insieme ai Profeti. Solo insieme, infatti, Legge e Profeti stabiliscono quella dialettica straordinaria che non permette mai alla lettera di essere privata dello spirito, al testo dell'interpretazione, al codice della tradizione. Né uno iota né un apice di quanto Dio ha detto e comandato può andare perduto. Quanto Dio ha detto e comandato deve essere vissuto e sperimentato, infatti, in un oggi vitale perennemente nuovo e la parola di Dio è viva proprio perché è aperta a sempre nuove successive attualizzazioni. Un po' ingenuamente, siamo spesso convinti che lo sforzo dell'inculturazione della fede sia un segno specifico del nostro tempo e un impegno delle Chiese del terzo millennio. In realtà, però, non facciamo che continuare, di fatto, quanto, per secoli e millenni, dal momento in cui Israele ha fatto l'esperienza di Dio come Dio-che-si-rivela, è arrivato fino a noi.

Da questo punto di vista, il concilio Vaticano II ha finalmente restituito ai credenti la consapevolezza che la rivelazione di Dio abita la storia. Non semplicemente, però, nel passato del già-detto, ma anche nel presente di una parola da saper ascoltare e mettere in pratica nell'oggi e perfino nel futuro di uno svelamento che solo alla fine potrà essere definitivo. Se non si traduce in tradizione viva, la rivelazione di Dio non è diversa da altri feticci religiosi. Tutte le volte che pretendiamo di cristallizzare quanto "sta scritto" in formule pronunciate una volta per tutte, la Scrittura non è parola, ma unicamente uno dei possibili codici religiosi. Se ancora oggi la Bibbia rappresenta per il mondo che l'ha conosciuta una linfa vitale e non un reperto archeologico, è proprio perché non conserva la parola di Dio ma permette a Dio di continuare a parlare.

Con quella sequenza di «ma io vi dico...» Gesù non vuole allora far decadere né uno iota né un apice di quanto Dio ha detto nel passato, di quanto "sta scritto", ma vuole interpretare con lo spirito di profezia il comando di Dio. Perché la legge di Dio diventi vita. Né Gesù ha d'altra parte la pretesa di fornire un'interpretazione di quanto "sta scritto" unica e definitiva. Con l'autorità che gli viene da Dio, egli intende stabilire il criterio di ogni possibile interpretazione, affinché né uno iota né un apice della legge vadano davvero perduti: il regno di Dio e la sua giustizia.
Il regno rappresenta il "di più" di Dio, non il "di meno". È risposta di Dio al tradimento dell'alleanza, è proposta di Dio perché nulla dell'opera delle sue mani vada perduto, è promessa di Dio che la vita dell'intero cosmo ritrovi la sua verità nella pace. Il Regno non sottrae, porta a pienezza. Per questo la giustizia del Regno non annulla il comando ricevuto nell'alleanza sinaitica, ma rivela che esso ha in sé virtualità da scoprire.

Che significa allora perdersi dietro sfibranti discussioni sulla fedeltà alle tradizioni? Gesù non si mette a disquisire sul comando di non uccidere o di non commettere adulterio. Né accetta semplicemente di ripeterlo e di riproporlo. Ne dà un'interpretazione che ne fa vedere possibilità di applicazione inedite. Con lo stesso anelito di radicalità che Dio ha profuso nella promessa del suo Regno. In un tempo in cui la Chiesa è chiamata a sfide colossali perché il progressivo spostamento degli «estremi confini della terra» chiede un impegno di evangelizzazione capace di intelligenza e di discernimento, di determinazione e di creatività, la giustizia del Regno impone di affrontare il mare aperto, chiede quindi che il messaggio dell'evangelo sia interpretato con il criterio del "di più".

Difendere la verità non significa parlare delle cose di Dio: bisogna imparare a parlare di Dio in modo che il sì sia davvero sì e il no sia davvero no. Una Chiesa ridotta al silenzio è certamente un grave pericolo, perché Dio per primo ha consegnato sé stesso alla parola. Gesù sa molto bene, però, che il vero pericolo, piuttosto che questo, è che i discepoli parlino in modo tale che il sì possa diventare no e il no possa trasformarsi in sì. Soprattutto, però, che essi cedano al fascino di una parola che parla senza dire, una parola cioè che viene dal Maligno. C'è un silenzio imposto come violazione della libertà di parola e c'è un silenzio scelto per non cedere al di più che viene dal Maligno. Forse i discepoli sono chiamati a ricordarsi gli uni gli altri che parlare in coerenza con la vita non è facile e parlare di Dio e a nome di Dio è ancora più difficile.

VITA PASTORALE N. 1/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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