VII Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 20 febbraio 2011
VII Domenica del Tempo ordinario

Lv 19,1-2.17-18
1Cor 3,16-23
Mt 5,38-48

VINCERE IL MALE
CON L'AMORE TOTALE

Spesso la cosiddetta "vita in diretta" di cui ormai traboccano le nostre reti televisive ci mette di fronte situazioni che, purtroppo, non ci lasciano più neppure interdetti o sconcertati. Durante arresti di mafiosi o camorristi da parte delle forze dell'ordine, vediamo gente che si scaglia contro i poliziotti, quasi che una tutela e un patronato garantiti da pluriomicidi di lunga data siano un diritto inalienabile. Oppure vediamo persone che, di fronte a episodi di violenza commessi da un immigrato, invocano forme di giustizia popolare immediata e senza scampo. Non bisogna generalizzare, è vero, né ritenere che alcuni comportamenti siano specifici della gente del sud e altri della gente del nord. C'è però di che restare turbati.

Le parole di Gesù non sanzionano con paternalistica equidistanza gli uni e gli altri. L'appello ad andare oltre la legge del taglione oppure a radicalizzare il comando dell'amore fino a includere anche i nemici rischia di restare una richiesta vuota e di lasciare indifferenti quando non addirittura di irritare: come si fa a chiedere a una madre a cui hanno rapito, violentato e ucciso la figlia adolescente di offrire ai malfattori una seconda figlia perché facciano altrettanto? Per «essere figli del Padre che è nei cieli», è chiesta una misura di amore che è senza misura e banalizzarla in facili formule può diventare perfino blasfemo. Giornalisti affannati che corrono dietro a genitori di vittime innocenti chiedendo loro senza sosta se sono disposti a perdonare è una delle tante forme di bestemmia di cui si nutre la nostra volgarizzazione quotidiana.

Per la storia umana la "legge del taglione", quella cioè dell'occhio per occhio, dente per dente ha rappresentato una grande conquista e, forse, dovremmo ricordarlo più spesso. Essa impone, infatti, che nessuna pena venga comminata dal potente di turno in modo arbitrario, ma che tra colpa e pena ci sia corrispondenza: all'occhio deve corrispondere l'occhio e basta, e al dente solo il dente. Esprime l'anelito a esercitare una giustizia degna degli esseri umani: se il mondo animale è regolato da ferree leggi naturali, gli uomini cercano di non pagare alla loro libertà il prezzo dell'arbitrio che procede quasi sempre, oltre tutto, a senso unico, da parte dei potenti e dei forti nei confronti dei miseri e dei deboli. È conquista recente, d'altra parte, postulare, sia pure a grande fatica e ancora in modo incerto, che è possibile raggiungere anche altri traguardi: il parallelismo tra colpa e pena non può essere applicato in modo meccanico e, soprattutto, arretra di fronte alla vita nel suo insieme, come Dio stesso ha saputo arretrare di fronte a Caino.

La vera questione posta dalle parole di Gesù, però, è altra. Il suo metro di misura, infatti, è quello dell' ''oltre", perché il maestro di Nazaret arriva a pesare colpa e pena non più soltanto sulla bilancia dell'equità. Alla violenza ricevuta, Gesù chiede di opporre un'alternativa radicale. Già il libro del Levitico aveva percorso questa strada, sia pure in termini negativi. Il comando di "non odiare" significava sapersi astenere dalla vendetta e dal rancore. Non è poco, ed è quanto il Dio di Abramo e di Mosè ha chiesto al suo popolo di apprendere, sfidando molte delle consuetudini socio-religiose dell'epoca.

Questa misura della santità trasforma, prima ancora che i comportamenti umani, l'atteggiamento di Dio stesso. La perfezione di Dio non sta nella sua onnipotenza o nella sua onniscienza, come ci hanno insegnato un po' troppo frettolosamente. La perfezione di Dio sta nell'essere capace di non vendicarsi, nel far sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, nel preferire essere inerme piuttosto che prepotente. Questa sua santità non lo allontana dagli esseri umani che ad essa, anzi, sono chiamati a partecipare. È una perfezione che, diversamente dall'onnipotenza, non allontana Dio, ma lo avvicina. Esattamente come l' ''oltre'' di Gesù raccorcia le distanze tra gli uomini se arriva a includere perfino i nemici.

In questa linea, allora, l'ardito ribaltamento di prospettiva da parte di Paolo diviene comprensibile. È finito il tempo in cui Dio può essere richiuso in templi fatti da mani d'uomo. È finito il tempo della distinzione tra spazi, persone e cose sacre, da una parte, e ambito del profano dall'altra. La vera profanazione nei confronti del Dio che ha chiamato alla santità è quella di rinserrarlo di nuovo dentro templi diversi dal corpo degli uomini e delle donne che con le loro vite fanno la storia. Perché troppo spesso preferiamo simulacri di onnipotenza alla perfezione del "Padre che è nei cieli"? Forse perché l'onnipotenza di Dio ci esonera dall'essere come lui, mentre la sua santità ci provoca a praticare la sua giustizia e non la nostra. Non è vero che la legge del Levitico recita di amare il prossimo e odiare il nemico. Ma è possibile che all'epoca di Gesù venisse proposto dai maestri un aggiustamento, per venire incontro alla fatica di accettare la perfezione di Dio come misura del proprio giudizio. Paolo direbbe che può anche essere considerato uno stratagemma dettato da sapienza. Ma alla sapienza di questo mondo Gesù ha preferito un'altra sapienza e non ha cercato aggiustamenti. Quanto ha chiesto ad altri Gesù lo ha chiesto anzitutto a se stesso: sulla croce ha invocato perdono e non vendetta.

VITA PASTORALE N. 2/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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