VIII Domenica del Tempo ordinario (A)



ANNO A - 27 febbraio 2011
VIII Domenica del Tempo ordinario

Is 49,14-15
1Cor 4,1-5
Mt 6,24-34

ACQUISIRE LA CAPACITÀ
DI ABBANDONO IN DIO

L'insegnamento sulla fiducia nella provvidenza rappresenta il cuore della predicazione di Gesù. Per questo gli evangelisti lo glossano e lo reinterpretano a più riprese. Posta da Matteo al centro del discorso della montagna, la richiesta di radicalità nei confronti di qualsiasi forma di possesso può essere intesa solo in termini di ampio respiro: non si tratta di un aut-aut ascetico né della pretesa di una radicalità puntuale e definitiva, ma dell'invito ad acquisire, come atteggiamento di fondo e lungo tutto il corso della vita, la capacità di totale abbandono nei confronti di Dio.

Come tutte le comunità urbane del cristianesimo nascente, infatti, anche la comunità di Matteo ha vissuto nei confronti della questione delle ricchezze un disagio permanente. L'insegnamento che Gesù aveva rivolto a coloro che lo seguivano nella sua itineranza missionaria era stato conservato e tramandato da alcuni discepoli che, in attesa di un suo ritorno imminente, avevano fatto della radicalità dei costumi il principio della propria testimonianza del Maestro e del suo messaggio. Se per loro quello delle ricchezze era un problema in qualche modo superato, data la loro scelta di vita fuori dalle dinamiche mondane, per i cristiani di Matteo esso è, invece, scottante. Per loro la sfida tra Dio e Mammona è sempre aperta. E la presenza dei poveri dentro e fuori la comunità non faceva che rendere il problema ancora più bruciante. Nulla di molto diverso, in fondo, da quanto viviamo anche nelle nostre comunità.

È certamente lecito quindi domandarci che senso abbia far risuonare queste parole oggi, nelle nostre comunità del benessere, in una società che ha fatto del welfare il suo modello di vita e rispettarle come un evangelo di grazia pronunciato per tutti. Anche se, purtroppo, l'idea si è andata affermando durante la tradizione cristiana, dal punto di vista di Gesù non esiste un discepolato "a due velocità": tutti indistintamente, e ciascuno distintamente, sono chiamati a cercare il regno di Dio e la sua giustizia. La parola di Gesù è evangelo proprio perché non esclude, non seleziona i migliori, ma diviene possibilità di vita per tutti. Interpella giorno dopo giorno con una radicalità che non scoraggia, ma persuade, con una forza che vince perché convince.
Fiducia e abbandono sono dimensioni profonde che, quando si vive nella storia, si apprendono passo dopo passo. Le parole di Gesù non sono lettera che uccide, ma spirito che vivifica. Il moralismo minaccia la vita come l'anoressia, la libertà invece la fa fiorire. E, paradossalmente forse, proprio il benessere nel quale siamo immersi può trasformarsi allora in condizione di grazia: mettersi al servizio di Dio o di Mammona è scelta che può conferire alla vita di ogni giorno il sapore della libertà. Anche se riuscissimo a esorcizzare Mammona con una scelta di vita estrema, d'altro canto, i poveri continuiamo ad averli sempre con noi. E sono loro che ci interpellano e, al contempo, insegnano a non avere paura.

Non si tratta semplicemente di ciò che si ha o non si ha: se si ragiona soltanto con la bilancia dell'avere, si può rischiare di perdersi in inutili sofismi. Né entra in gioco soltanto il senso della vita: molte altre tradizioni religiose o filosofiche insegnano che la qualità della vita è strettamente legata alla libertà dall'ansia del possesso. L'invito di Gesù non è un consiglio di perfezione. È parola profetica che svela il volto di Dio. Prima ancora che suggerirci come dobbiamo vivere, Dio rivela se stesso come un Dio a cui ci si può abbandonare nella fiducia perché lui, per primo, non abbandona. L'immagine materna di Dio è antica almeno come il libro del profeta Isaia. Eppure, quando papa Luciani, nei pochi giorni del suo pontificato, ricordò ai fedeli riuniti in piazza San Pietro che Dio era insieme padre e madre, grande fu lo stupore e, forse, anche il disappunto. Ancora oggi si fa riferimento a quella frase come se fosse uscita inavvertitamente dalla bocca di un Papa che voleva accostarsi alla gente con semplicità.

Con grande acutezza il regista Guido Chiesa, nel suo film su Maria di Nazaret Io sono con te, ricostruisce il rapporto tra Gesù e sua madre come qualcosa che non riguarda soltanto una madre e suo figlio o un figlio e sua madre, ma come una relazione che consente al figlio di crescere nella sua fede in Dio. Riguarda cioè l'immagine stessa di Dio: se Gesù ha dato al suo messianismo il respiro della libertà da ogni forma di violenza e di sopraffazione, anche di quella religiosa, è stato perché sua madre gli ha insegnato che Dio, come dice Isaia, considera ogni essere venuto al mondo come figlio delle sue viscere.
Per questo è stata, non soltanto madre di Gesù, ma madre del Messia. Purtroppo, trascinare Dio nel gioco degli stereotipi di ruolo, tanto stucchevoli quanto pericolosi, della complementarità è diventato molto facile. Invece, la misericordia non è il femminile di Dio come la giustizia non ne è il maschile. Il Dio-unico ha invece bisogno di tutte le parole dell'umano per farsi conoscere, parole di uomini e di donne, di giovani e di vecchi, come dice il profeta Gioele, parole declinate al maschile e al femminile. Parole che, comunque, non possono né comprenderlo né contenerlo. Parole di fronte alle quali, infatti, egli si riserva il diritto di dire, sempre, «lo invece..." (Is 49,15).

VITA PASTORALE N. 2/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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