II Domenica di Quaresima (A)


ANNO A - 20 marzo 2011
II Domenica di Quaresima

Gen 12,1-4a
2Tm 1,8b-10
Mt 17,1-9

LA TRASFIGURAZIONE,
DICHIARAZIONE DI FEDE

I grandi tempi liturgici di avvento e quaresima, che preparano alle celebrazioni del compimento in Cristo delle promesse di Dio, rimandano alle teofanie che scandiscono la vita di Gesù, cioè il battesimo e la trasfigurazione. Pagine evangeliche che vanno infatti ben oltre la narrazione di un episodio perché intendono piuttosto rivelare il significato di quello che Gesù compie e stabilire, come condizione di fondo della fede discepolare, la capacità di vedere l'invisibile. Saperlo vedere non in momenti straordinari della vita, ma dentro la storia degli uomini e delle donne che, per coloro che credono, è il luogo e il tempo della presenza di Dio.

La trasfigurazione non è un'esperienza visionaria, ma una dichiarazione di fede tradotta in linguaggio narrativo, un racconto che vuole rendere chiara, comprensibile, "visibile" una rivelazione divina. Di essa, la versione liturgica del testo matteano, abbreviata, non rende pienamente ragione. L'evangelista articola infatti il racconto su due quadri: la solenne dichiarazione da parte di Dio stesso della figliolanza divina di Gesù e, specularmene, la presentazione che Gesù fa di se stesso come figlio dell'uomo che dovrà affrontare la passione e la morte. Per questo la trasfigurazione non è un'esperienza né individuale né mistica né, tanto meno, eccezionale.

Nella Bibbia il criterio della rappresentanza di alcuni in funzione del popolo nel suo insieme è decisivo. Pietro, Giacomo e Giovanni sono figure che la tradizione evangelica considera rappresentative. Non del gruppo dei Dodici soltanto, ma di ogni forma di discepolato cristiano. Sia Pietro, portavoce del gruppo dei Dodici, sia i due figli di Zebedeo non possono accampare alcun merito o privilegio, perché la loro comprensione di quanto vivono insieme a Gesù è a dir poco imbarazzante. Eppure, rispetto alla risurrezione, nel racconto della trasfigurazione, e rispetto alla morte, nel racconto del Getsemani, essi sono rappresentativi del fatto che quanto Gesù ha vissuto può essere raccontato e quindi trasmesso di padre in figlio.

La "paternità" di Abramo nei confronti del popolo che Dio chiama all'alleanza non è stata certamente biologica e la sua vicenda ha senso solo in quanto ha stabilito un paradigma di reciproca appartenenza tra Dio e il suo popolo. Con la promessa ad Abramo ha avuto inizio, dentro la grande storia dei popoli, una storia di cui si è fatto interprete e garante Dio stesso, il Dio unico.
Ad Abramo è stato dato infatti di cogliere nei singoli avvenimenti l'aspirazione a una promessa e la gioia di un compimento. Per questo la più ordinaria delle necessità umane, quella della migrazione, e la più condivisa delle aspirazioni umane, quella alla generazione di una discendenza, acquistano dei caratteri teologici e solo per questo e in questo senso sono fuori dal comune. Non sono né straordinari né leggendari, però. Ad Abramo è dato di saper leggere la sua storia come storia di Dio con gli uomini alla ricerca di una terra e di un figlio che siano terra e figlio di una promessa divina.

Abramo diviene una benedizione non perché suo figlio compirà gesta eroiche o perché i suoi discendenti saranno i potenti signori di una terra, un regno, una nazione. Egli non lascia in eredità alle generazioni future la memoria storica di un potere politico o religioso, ma la memoria viva del segreto profondo della storia: essa si svolge non semplicemente tra causa ed effetto, ma tra promessa e compimento. Con Abramo ha inizio la trasfigurazione della storia. E anche quando il suo esodo sarà la deportazione, il popolo dei figli di Abramo sarà capace di scorgere che la fedeltà del Dio della promessa non è venuta meno e continua, invece, a creare futuro.

Solo il compimento porta pienamente in luce la promessa. Per questo il racconto della trasfigurazione non va inteso come cronaca di un episodio visionario, ma come confessione di fede nella risurrezione, risposta definitiva di Dio all'ultimo grande esodo e alla definitiva deportazione, quella della morte del Messia. Le parole di Pietro attestano la sua inadeguatezza. Si tratta di una inadeguatezza teologica, non psicologia o morale: finché il figlio dell'uomo non sia risorto dai morti, nessuna fede è possibile. Tanto meno, una fede visionaria che altera il carattere pienamente umano della passione e della morte di Gesù.

Trovare intere folle che prestano fede a esperienze visionarie è facile in ogni tempo e in ogni latitudine religiosa, mentre trovare discepoli disposti a credere nella risurrezione è molto più difficile. Non significa infatti soltanto essere disposti a sperare, come Marta di Betania, che ci sarà una risurrezione nell'ultimo giorno, ma credere che il tempo della risurrezione è ormai definitivamente cominciato perché il risveglio di Cristo dai morti ha già impresso alla storia umana il suggello del suo ultimo e definitivo compimento. Testimoniare che, quanto appartiene all'invisibile, cioè la risurrezione di Gesù come caparra della presenza di Dio nella storia umana, è diventato visibile agli occhi di chi crede non prevede doni straordinari o occasioni eccezionali. Abbiamo a disposizione "Gesù solo" (v. 8). In continuità con Mosé ed Elia, egli ci ha rivelato che la vita è teofania.

VITA PASTORALE N. 2/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



torna su
torna all'indice
home