V Domenica di Quaresima (A)


ANNO A - 10 aprile 2011
V Domenica di Quaresima

Ez 37,12-14
Rm 8,8-11
Gv 11,1-45

I MIRACOLI SERVONO
A RINFORZARE LA FEDE

Progressivamente, il cammino quaresimale rivela sempre più chiaramente la sua finalità: preparare all'atto di fede per eccellenza. Se infatti la morte di Gesù appartiene all'ordine dei fatti storici di cui fare memoria, alla risurrezione di Gesù si può, invece, solo credere. Senza evidenze, ma unicamente sulla base della parola di Gesù. Senza conferme perché, come insiste l'evangelista Giovanni ogni volta che racconta una storia di miracolo, la fede non nasce dai miracoli, che servono solo a rinforzarla. Per chi non vuole credere in Gesù non è convincente neppure un morto che esce dalla tomba. Anzi, rafforza rabbia e ostilità e conferma nei propositi di vendetta e di morte.

Giovanni è l'unico evangelista che conosce il racconto della risurrezione di Lazzaro, un racconto molto complesso, ricco di elementi combinati insieme con grande forza narrativa, ma anche contrassegnato da una pronunciata dimensione simbolica. I personaggi che entrano in scena sono molti. Gesù, i discepoli, le due seguaci di Betania, Marta e Maria, il loro fratello Lazzaro che passa dalla morte alla vita. E poi tante altre comparse che si danno da fare per andare a vedere, che restano meravigliate. Alcune arrivano alla fede, mentre altre passano dalla perplessità alla rabbia. A Betania, la parabola iniziata a Cana di Galilea arriva a compimento: la narrazione della vicenda pubblica del Messia propone storie che sono solo in parte cronache di fatti e che devono invece servire a insegnare la logica dei segni, cioè a non restare prigioniera del fatto, ma a "vedere", dentro il fatto e oltre il fatto.

Tra i segni compiuti da Gesù, la risurrezione di Lazzaro è certamente il più importante. Non soltanto in sé, ma in quanto simbolo della risurrezione di Gesù stesso. Per questo, anche il dialogo tra Marta e Gesù che prelude al miracolo raggiunge un'intensità e una solennità tutte particolari. Marta confessa prima ancora che Gesù compia il miracolo che egli è il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo. Per questo rappresenta l'ideale del credente che crede senza aver visto (cf 1,34 e 20,29). Altri credono solo dopo il miracolo. La confessione di fede di Marta procede per gradi: la sua fiducia nel potere taumaturgico di Gesù (v. 21) diviene sconfinata (v. 22) e, rafforzata dalla sua convinzione religiosa che i morti risorgeranno nell'ultimo giorno (v. 24), arriva a provocare l'autorivelazione di Gesù (v. 25) e sfocia nel solenne riconoscimento della sua divinità (v. 27). Marta è il paradigma della fede postpasquale, colei che è arrivata a credere solo a partire dalle parole di Gesù e per la quale, allora, il miracolo della risurrezione del fratello conserva la qualità di segno. Gli israeliti, e neppure tutti perché ancora al tempo di Gesù un importante gruppo come quello dei sadducei era lontano dall'accettarla, arrivano abbastanza tardi a credere nella risurrezione. Essa si accredita come dilatazione della speranza, maturata durante l'esilio, di poter rientrare nella terra della promessa: anche dall'esilio della morte Dio farà ritornare i suoi servi. Le parole di Ezechiele lo annunciano con forza profetica. La lettera ai Romani va ancora più avanti e attesta che il primo frutto della risurrezione di Gesù è la consapevolezza della dimensione mistica della risurrezione, come forza di vita operante fin da ora grazie all'inabitazione dello Spirito di Dio nei corpi di coloro che sono morti al peccato grazie al battesimo.

La casa delle due sorelle di Betania è un luogo determinante: lì molti Giudei credono e altri covano voglia di tradimento e ansia di denuncia, lì ha inizio poco dopo l'atto finale della vita del Messia. La tradizione successiva attesta invece che, anche per quelle due sorelle di Betania che Gesù amava, la memoria delle donne bibliche diviene presto storia di emarginazione e di esproprio. Giovanni non conosce l'episodio della confessione di Pietro mentre attribuisce a Marta una confessione della divinità di Gesù che fa raggiungere al suo racconto della rivelazione di Gesù al mondo il punto culminante. Eppure, tutta la tradizione successiva attribuisce a Marta un profilo discepolare basso. Sua sorella Maria, come ricorda Giovanni, era conosciuta dalla tradizione proprio per aver compiuto il gesto dell'unzione nei confronti di Gesù prima della sua passione. Perché la tradizione successiva l'ha espropriata del ruolo di discepola per confonderla con la peccatrice che unge i piedi di Gesù (Lc 7,37ss.)?

Lungo il corso della tradizione, la forza del gesto profetico di Maria, che ha capito che la morte di Gesù, come quella di Lazzaro, era per la glorificazione di Dio e non per la sua sconfitta, sbiadisce almeno quanto la forza del dialogo teologico che Marta instaura con Gesù, come già la donna di Samaria e, dopo la risurrezione, Maria di Magdala. La sorte delle due sorelle di Betania è singolare: Marta, padrona di casa, conosciuta dai Giudei, intraprendente, diventa la casalinga disperata del vangelo di Luca che è oberata dalle faccende domestiche; Maria, discepola per eccellenza sia per Luca che per Giovanni, diventa la peccatrice eternamente penitente. Forse, restituire le donne del Vangelo al loro ruolo profetico potrebbe significare ritrovare il filo di Arianna per uscire dal labirinto dello smarrimento e della desolazione in cui vaghiamo da troppo tempo.

VITA PASTORALE N. 3/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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