III Domenica di Pasqua (A)


ANNO A – 8 maggio 2011
III Domenica di Pasqua

At 2,14a.22-33
1Pt 1,17-21
Gv 20,19,31

L'EPISODIO DEI DUE
DISCEPOLI DI EMMAUS

È possibile vedere il Risorto? A questo proposito i vangeli sono molto chiari e, forse, dovremmo ricordarci un po' più spesso che nessuno ha visto il momento della risurrezione perché nessuno, assolutamente nessuno, poteva vederlo. La risurrezione appartiene all' opera di Dio dentro la storia, opera che solo gli occhi della fede, che vedono l'invisibile, possono vedere e, per di più, soltanto come "storia degli effetti". Per questo i suoi discepoli, Maria di Magdala e Pietro, il discepolo che Gesù amava e le discepole galilee e perfino Paolo possono affermare che, in modi e momenti diversi, il Risorto si è fatto vedere e loro lo "hanno visto".

La lunga pagina del vangelo di Luca che racconta l'esperienza dei discepoli di Emmaus è, ancora una volta, paradigmatica. Non narra un episodio, ma propone un modello. Prima di tutto, però, cerca di rispondere ad alcune questioni scottanti: come è possibile, cosa significa, di cosa c'è bisogno per "vedere il Risorto"? Questioni tutt'altro che polemiche o irridenti, che non intendono certo schernire ma, piuttosto, affrontare il nodo fondamentale della fede in Gesù, il Cristo di Dio, con il coraggio che esso, di per sé, richiede. Anzi, dovremmo domandarci: come mai quelli che frequentano le nostre chiese e le nostre assemblee liturgiche non ci pongono, e forse neppure si pongono, più queste domande? Quando la fede è anestetizzata perché non si appoggia a nessuna "intelligenza", le chiese dovrebbero allarmarsi: l'analfabetismo teologico dei credenti è il vero e proprio dramma della fede.

Il racconto dei due di Emmaus, come tutti gli altri racconti delle apparizioni del Risorto possono dire qualcosa a chi non porta dentro di sé interrogativi carichi di dubbio. Anzi, a ben vedere, quei racconti sono stati formulati come risposta alle questioni poste da coloro che, venendo alla fede, avevano bisogno di imparare le parole per pensare la risurrezione e dire la risurrezione. La risurrezione non è uno dei tanti fenomeni visionari che punteggiano le tradizioni religiose e le svuotano dal loro interno nel momento stesso in cui illudono di arricchirle e di irrobustirle.

Con la storia di due discepoli di Gesù che vivono il passaggio dall'esperienza della crocifissione e morte del loro maestro alla fede nella sua risurrezione Luca traccia in modo decisivo e definitivo il "manifesto" della catechesi cristiana. Un racconto carico di intensità e di suggestione ha infatti lo scopo di richiamare le comunità che, alla fine del primo secolo, misuravano con una certa fatica la loro distanza dagli avvenimenti della vita del Nazareno, a vivere con perseveranza i punti cardine della fede. Fede ecclesiale, innanzi tutto, cioè sperimentabile e sperimentata, fede condivisa e celebrata.

Nel racconto lucano, gli elementi portanti della predicazione apostolica, si snodano come tappe di un progressivo svelamento che mette in grado due discepoli di Gesù di "adattare i loro occhi" perché finalmente l'immagine di Gesù e quella del Risorto arrivino a sovrapporsi e a coincidere. La fede non è una certezza che sta all'inizio del cammino. Se per Tommaso, nel quarto vangelo, il cammino della fede nasce da un dubbio, per i due di Emmaus esso prende le mosse da uno scoraggiamento. È più che uno scoraggiamento emotivo o psicologico. Si potrebbe dire che è uno scoraggiamento teologico: per loro quella croce piantata sul Golgota ha fatto crollare la fiducia che avevano riposto nel Maestro e nella sua pretesa di portare a compimento le promesse scritturistiche.

L'ambientazione della scena è fondamentale. Anche il Risorto, come il Gesù terreno, "cammina". È un'indicazione importante: Dio si fa presente lì dove gli esseri umani "camminano", lì dove discutono tra loro, dove le ragioni della loro speranza sono state sconfitte, dove sofferenza, paura, ingiustizia, emarginazione sembrano dettare l'unica legge della vita. Come Gesù, anche il Risorto si fa compagno di strada, come Gesù, anche il Risorto non sceglie la sacralità di un luogo, ma la sua presenza affianca uomini e donne lungo la strada della loro ricerca, della loro perplessità, del loro scoraggiamento.

Il Dio che si fa presente non forza in nessun modo la ferialità della vita e della fede: nulla di portentoso, nulla di prodigioso. Come lungo tutta la storia del popolo che si è scelto, Dio si consegna soltanto alla parola e al segno. E gli occhi dei discepoli diventano capaci di vederlo solo lentamente proprio perché entrare nella logica della parola e del segno chiede tempo. Nessuna folgorazione, ma la lenta pedagogia che, quando finalmente parola e segno si schiudono reciprocamente, porta al riconoscimento.

Solo quando scalda il cuore la confessione di fede è espressione dell'esperienza del Risorto. E non si tratta di religiosità ad alto tasso emotivo, chiede conoscenza di tutte le Scritture di Israele perché solo a partire da Mosé e dai Profeti si possono capire Gesù e il suo vangelo. Solo la Scrittura, d'altra parte, educa a entrare nella logica dei segni come svelamento del Dio che si fa presente. Luca sa molto bene che senza catechesi biblica e celebrazione sacramentale, il Risorto altro non è che fantasticheria, immaginazione, illusione e la fede cristiana si traduce in una delle tante forme di abuso della credulità popolare.

VITA PASTORALE N. 4/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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