IV Domenica di Pasqua (A)


ANNO A – 15 maggio 2011
IV Domenica di Pasqua

At 2,14a.36-41
1Pt 2,20b-25
Gv 10,1,10

UNITI ATTORNO
AL VERO PASTORE

Il tempo pasquale prevede un itinerario molto diversificato. Non può essere che così, dato che la celebrazione del mistero pasquale, cioè del fondamento della fede in Gesù come Cristo di Dio, rappresenta il cuore dell'anno liturgico e della vita del credente. Nella quarta domenica di pasqua prosegue, dunque, il rimando alla prima predicazione kerigmatica e il richiamo apostolico a ricavare proprio dalla pasqua il modello esemplare di vita. Nello stesso tempo, però, la pagina evangelica richiama con forza la comunità perché vigili su coloro che, invece di governarla in fedeltà a Cristo, attentano alla sua vita. Celebrare la risurrezione, infatti, significa tanto annunciarne la potenza di salvezza, quanto assicurarne l'efficacia attraverso la fedeltà della comunità al suo Signore. Da una parte, quindi, la comunità pasquale deve rinsaldare il suo impegno missionario e catechetico, dall'altra è chiamata a tutelare se stessa da coloro che cercano di impadronirsene sottraendola alla cura del suo unico pastore.

La seconda parte del discorso di Pietro alla casa di Israele completa in modo irrinunciabile la prima parte: proprio in quanto annuncio di salvezza, il kerigma non può infatti limitarsi alla proclamazione della grande opera compiuta da Dio risvegliando dai morti il suo Messia. Coloro che ascoltano la proclamazione kerigmatica di Pietro conoscono in che modo l'agire di Dio si è fatto strada dentro alla storia del suo popolo e sanno perciò che l'azione di Dio è sempre "impegnativa". Con essa Dio si impegna in favore di coloro che egli ama, ma essa costituisce anche il momento originante dell'impegno di obbedienza da parte di coloro a cui Dio ha manifestato il suo amore. Solo se arriva a "trafiggere il cuore" il kerigma assolve il suo compito e la fede che nasce dall'ascolto della predicazione apostolica è fede che salva. Conversione e battesimo non sono circoscrivibili a due momenti iniziali della vita del credente, ma suggellano l'inizio di un'appartenenza che in modo definitivo scioglie altri vincoli sociali o religiosi e immette nella nuova "generazione" di coloro che, qualunque sia il loro popolo di provenienza, sono stati da Dio stesso convocati a prendervi parte.

Se il libro degli Atti insiste dunque sul volto kerigmatico-missionario della comunità dei discepoli del Risorto, una delle pericopi da cui è composto il discorso giovanneo sul Pastore fronteggia invece con fermezza una situazione interna alla comunità. È comune a tutti e quattro gli evangelisti la preoccupazione per l'attentato all'integrità comunitaria rappresentato proprio da coloro che ne avevano preso il governo, ma Giovanni proietta questo problema sullo sfondo di uno dei grandi discorsi cristologici del suo vangelo in cui la formula cristologica dell' "lo sono" serve a ricondurre soltanto a Gesù il diritto di esercizio di autorità nei confronti del "gregge".

La pericope giovannea impone non soltanto ai capi delle comunità, ma anche a tutti i credenti di prendersi le proprie responsabilità nei confronti di un problema di importanza capitale per la vita delle Chiese: chi scelgono come modello? A chi vanno dietro? Chi invitano a seguire? Siamo abituati a un'iconografia del "buon/bel pastore" che non sempre fa giustizia di questa parola che Gesù indirizza ai capi religiosi del suo popolo come vero e proprio atto di accusa per come guidano e proteggono coloro che sono stati loro affidati. È un'accusa dura: sono degli usurpatori, che sono entrati nel recinto "da un'altra parte", cioè si sono attribuiti la responsabilità di guidare il popolo in modo arbitrario. Per questo sono come i ladri e i briganti e le loro pecore esprimono un giudizio acuminato contro la loro pretesa perché non li riconoscono. I toni del discorso sono duri e risalta la differenza tra gli usurpatori e il pastore buono, autentico e verace che si erge, nelle parole di Gesù, con tutta la forza che gli viene da Dio, sì, ma anche dal riconoscimento da parte delle pecore stesse.

Il monito di Gesù va colto e accolto nella sua duplice dimensione, storico-religiosa e teologica. Dal punto di vista storico, anche se non è facile individuare con precisione quali siano le guide politiche e religiose di Israele a cui Gesù ha fatto riferimento, le sue parole riprendono quelle di Ezechiele 34 e non hanno perciò in nessun modo, in quanto pronunciamento profetico, valore generico, ma chiamano in giudizio precise situazioni di abuso di potere religioso e politico. Dal punto di vista teologico, invece, l'immagine biblica del pascolo, cioè della condizione di appagamento, di soddisfazione e di beatitudine restituisce al popolo chiarezza identitaria e forza di discernimento nel momento in cui ricorda la dimensione teologica della sua elezione: Gesù è l'unico attraverso il quale Dio torna a essere riconosciuto come vero pastore del suo gregge.
Il contrasto tra la pretesa dei responsabili religiosi e la saggezza dei credenti è parola di consolazione perché riconosce a tutti il carisma della profezia: il popolo sa discernere tra falsi pastori e vero pastore, perché i primi derubano, approfittano, abusano, il secondo, invece, dà senza riserve. Il criterio profetico è dunque l'abbondanza della vita e dei doni. Non dovrebbe diventare criterio che orienta anche l'annosa discussione sulla possibilità o meno di democrazia nella Chiesa cattolica?

VITA PASTORALE N. 4/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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