XV Domenica del Tempo ordinario (A)


ANNO A - 10 luglio 2011
XV Domenica del Tempo ordinario

Is 55,10-11
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23

I MISTERI DEL REGNO
SPIEGATI IN PARABOLE

Il problema della predicazione e, in particolare, dell'omelia è stato ormai portato all'attenzione in modo autorevole perfino nei documenti magisteriali. Non posso dimenticare la risposta datami diversi decenni fa da un vescovo quando, all'interno di un convegno ecclesiale in cui si discuteva della formazione teologica in Italia, avevo richiamato l'attenzione sulla difficoltà crescente, da parte dei fedeli, ad ascoltare omelie a dir poco imbarazzanti. Mi ripeté una frase, ormai di repertorio, pronunciata da non so quale papa o cardinale: al tempo del concilio Vaticano I ogni domenica in Francia venivano celebrate migliaia e migliaia di messe e pronunciate altrettante omelie e, nonostante questo, la Francia non aveva ancora perduto la fede. Non è detto, certo, che il massiccio esodo dalle chiese di questi ultimi decenni debba essere imputato solo alle prediche domenicali, ma non c'è dubbio che predicazione e catechesi siano ormai un punto dolente della prassi liturgica e pastorale della Chiesa.

Il terzo grande discorso su cui Matteo fa reggere tutta la struttura del suo vangelo, quello delle parabole, ci conferma d'altra parte che il "ministero della parola" è tutt'altro che semplice. La predicazione di Gesù non riproduceva gli schemi di quella sinagogale, non voleva essere cioè un'interpretazione ufficiale della Scrittura all'interno di un contesto di istruzione liturgica. Gesù, ci dice Matteo, non "predica", ma "parla", e parla in parabole. Non intende istruire e ammaestrare né, tanto meno, fare lezione, ma parlare, rivolgersi, interpellare, chiamare a risposta. E, come la comunità di Matteo sa molto bene, non ha avuto fortuna, perché in pochi lo hanno capito e seguito e in molti lo hanno rifiutato. Sul duplice versante, quello della continuità tra le attese di Israele e la persona del messia crocifisso, da una parte, e quello del rifiuto da parte di Israele, dall'altra, la domanda sulla legittimità della nuova fede attraversa e scuote l'intero vangelo di Matteo. Anche il grande discorso parabolico.

La parabola di Gesù sulla semina, lo sconcerto dei suoi discepoli cui segue prima la presa di posizione profetica di Gesù, che traccia una netta linea di demarcazione tra i pochi discepoli e le folle, e poi l'interpretazione allegorica della parabola da parte dei primi predicatori cristiani invitano dunque a percorrere diverse strade di riflessione. La parola che Dio ha rivolto agli uomini è come quel seme che, comunque, porta un frutto superiore a quanto prevedibile o previsto. Il deutero-Isaia, quello che indirizza il suo ministero profetico alla consolazione di Israele dopo l'esilio, lo afferma con la sicurezza di una fede passata per il crogiuolo del tradimento e della sofferenza. La parola con cui Dio ha condotto il suo popolo è passata attraverso l'abominio della deportazione e della desolazione, ma ha continuato a far nascere frutti di fedeltà e di obbedienza. Gesù cita invece il primo Isaia, il cui oracolo è duro e senza scampo. Parole che Matteo sente rivolte all'Israele del suo tempo che ha chiuso occhi e orecchi nei confronti del ministero profetico-messianico di Gesù. Su quel lago di Tiberiade la parola di Gesù in parabole stabilisce una divisione. Da una parte i discepoli, quelli che sulle rive di quel lago sono stati chiamati e che ora sono proclamati "beati" più di molti profeti e giusti, dall'altra il popolo insensibile che è diventato duro d'orecchi e ha chiuso gli occhi di fronte all'ultima e definitiva "parola" di Dio in Gesù.

Prima di andare in cerca del senso specifico della parabola, allora, Matteo tocca il cuore dolente del problema: in che modo i cristiani possono rapportarsi al popolo di Abramo che non si è sentito interpellato da quel parlare in parabole di Gesù? È un problema grave, che non può ricevere attenzione solo quando balzano alla cronaca odiosi segnali di antisemitismo o quando qualche ricorrenza ci obbliga a scavare nell'archivio della memoria. Né può essere demandato ai dialoghi ebraico-cristiani ufficiali. È un ganglio vitale che la predicazione deve saper affrontare, perché su quella linea di separazione netta tra i due popoli cui Dio ha parlato non si gioca solo una corretta possibilità di convivenza, ma su quella linea cammina la comprensione comune del Dio unico attraverso una parola che, comunque, è destinata a portare frutto. Come riconoscere questi frutti? Come goderne? Come celebrarli insieme, rendendo gloria a Dio?

Va prestata attenzione, però, anche all'applicazione della parabola. Espressione di una catechesi arcaica che l'evangelista decide di fare propria e di trasmettere, essa mette a nudo la distanza tra il messaggio di Gesù e il tentativo di applicarlo alla vita comunitaria. Al centro della parabola di Gesù c'è la semina, c'è, cioè, il Dio-che-parla. Al centro dell'interpretazione allegorica ci sono, invece, i credenti, cioè il campo con i quattro tipi di terreno. Gesù parlava di Dio, mentre fin dall'inizio la predicazione cristiana ha preferito parlare di categorie di persone, di stati di vita, di gradi di perfezione. Uno slittamento che deve far riflettere, dato che le parabole di Gesù disseminate nei vangeli normalmente riproducono il pensiero di Gesù. A volte, forse, le applicazioni edificanti sono necessarie. Non bisognerebbe dimenticare, però, che Gesù ha parlato d'altro.

VITA PASTORALE N. 6/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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