Gesù Cristo, re dell'universo - XXXIV Dom.T.O. (A)

ANNO A - 20 novembre 2011
Gesù Cristo, re dell'universo - XXXIV Dom. del T.O.

Ez 34,11-12.15-17
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46


IL REGNO SI MANIFESTA
NEI PICCOLI E NEI POVERI

Chiude l'anno liturgico il solenne brano con cui Matteo suggella l'attività pubblica di Gesù. Subito dopo ha inizio il racconto della passione. La Chiesa cattolica dedica questa ultima domenica dell'anno alla festa di Cristo Re. L'atmosfera grave dell'ultima istruzione di Gesù sul giudizio finale, che sancisce il dramma del rifiuto, conferisce alla regalità di Cristo, nel momento in cui lo riconosce giudice universale, le stigmate della sconfitta: non tutti coloro a cui egli ha rivolto il suo annuncio del regno lo hanno accolto, non tutti coloro che egli, come pastore dell'Israele della fine dei tempi, ha convocato per ricondurli all'ovile, a cui ha fasciato le ferite della dispersione e dell'esilio in terra straniera, che ha fatto di nuovo pascolare tra le montagne della terra benedetta da Dio, non tutti i figli del popolo che Dio si è scelto hanno ascoltato la sua voce. Ancora una volta, il Dio biblico contempla la possibilità del rifiuto.

Il giudizio del figlio dell'uomo si compie, secondo Matteo, su tutte le genti. Questo significa che avverrà nel momento in cui, finalmente, il vangelo del regno sarà stato proclamato a tutta la terra e di esso sarà stata resa testimonianza davanti a tutti i popoli. Saranno dunque chiamati in giudizio tutti coloro che hanno avuto la possibilità di ricevere il messaggio di Cristo e di prendere posizione per lui, compresa la comunità cristiana a cui Matteo si rivolge. Non si tratta di un giudizio né sommario né collettivo: la sera, quando tornava all'ovile, il pastore israelita vagliava pecora per pecora e le separava dai capri. Il giudizio comporterà dunque, finalmente, una separazione e sarà definitiva, come è definitiva la posizione che si prende nei confronti dell'evangelo di Gesù, o con lui o contro di lui.
La scena escatologica del giudizio non viene raffigurata in toni apocalittici, non vengono evocati fatti straordinari, sconvolgenti. Al centro c'è solo il confronto tra il grande giudice e tutti coloro che hanno conosciuto Gesù attraverso la predicazione del Vangelo. Punto culminante del discorso, esplicitato nel doppio dialogo sulle opere buone, sta nell'identificazione tra Gesù e «i più piccoli dei fratelli». Matteo l'aveva detto: non chi dice Signore Signore, ma chi compie le opere di carità riconosce la regalità di Cristo ed entra nel Regno.

Il duplice dialogo insiste dunque su un unico criterio, quello delle opere buone. Sono tutte ben conosciute alla pietà giudaica che le ha sempre considerate la manifestazione fondamentale della fedeltà a Dio. Per la tradizione profetica, esse sono più importanti addirittura del culto, e quando il tempio verrà distrutto, la pratica delle opere buone rappresenterà il suggello della fede del buon ebreo. Solo una delle opere elencate nel duplice dialogo non apparteneva esplicitamente all'esperienza ebraica: andare a visitare i carcerati. Si potrebbe dunque trattare di un'applicazione alla vita della comunità dei discepoli di Gesù perché spesso i missionari venivano perseguitati e incarcerati e, poiché le esigenze della missione li portavano lontani dalla loro famiglia, potevano contare solo sui fratelli di fede.

Il criterio del giudizio definitivo sono le opere. Forse dovremmo riflettere di più su questo in un momento in cui pare prendere il sopravvento la difesa della purezza della dottrina, la salvaguardia dell'ortodossia, la tutela della prassi rituale. In continuità con la grande tradizione israelitica, anche per Gesù l'autenticità della fede si verifica sull'ortoprassi prima ancora che sull'ortodossia. L'opera buona diventa più importante di tutto, delle dichiarazioni di principio, dell'osservanza, della partecipazione al culto.
Ricondurre Dio alle relazioni tra gli uomini e, in modo tutto particolare, alle relazioni nei confronti dei "piccoli" non significa però risolvere la fede in una prassi etica paragonabile alle molte forme di filantropia che gli esseri umani, per fortuna, sono stati capaci di inventare e perseguire nel corso dei secoli. Per Gesù, infatti, i "piccoli" sono molto di più che semplici destinatari di attenzione e dedizione. Sono sacramento della visibilità di Dio. Anche se si tratta di una teofania silente, in loro Dio si manifesta, si rende presente.

Chi sono dunque quei "fratelli più piccoli" che stanno tanto a cuore a Gesù fino al punto di determinare in modo decisivo la condanna di coloro che, non avendo saputo fare loro del bene, non hanno riconosciuto Dio? Un affamato e un forestiero sono innanzi tutto un'evidenza, con loro non è possibile barare. Sono loro che ci fanno ritornare dall'esilio dell'egoismo ed è grazie a loro che Dio comanda di nuovo. E nel momento in cui i "piccoli" ci interpellano che Dio, finalmente, regna e qualsiasi gesto di cura per chiunque sia in difficoltà è il luogo della regalità di Dio.
«Saremo giudicati sull'amore»: nessuno dei discepoli di Gesù può dire di non sapere cosa significa. Incontrare Gesù, aderire a lui è molto meno complicato di quanto spesso si pensi. I poveri, i piccoli, i forestieri, i carcerati sono lì a indicarcene la presenza. Evidenti per gli occhi, essi non sono altrettanto evidenti, però, per il cuore. Non per tutti, almeno. Neppure tra coloro che appartengono alla comunità dei discepoli di Gesù. Anche questa è, troppo spesso, un'evidenza.

VITA PASTORALE N. 10/2011(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

torna su
torna all'indice
home