II Domenica di Avvento (B)


ANNO B - 4 dicembre 2011
II Domenica di Avvento

Is 40,1-5.9-11
2Pt 3,8-14
Mc 1,1-8

COL MESSIA LA STORIA
ENTRA NELLA PIENEZZA

Il deserto è luogo sconosciuto ai più e, tranne rare eccezioni, quelli che sono andati nel deserto lo hanno fatto per ragioni che nulla hanno a che vedere con il Dio biblico. Invece, il deserto è luogo decisivo per la fede di Israele. È il luogo in cui tutto comincia e da cui tutto ricomincia. Anche l'Evangelo, la buona notizia del Regno, ha inizio nel deserto. Il deserto non è solo un luogo, è anche un tempo. È il tempo dell'iniziativa di Dio, è il tempo della gestazione della fede, è il tempo che rende la vita di un popolo e del suo Messia Evangelo. Il deserto non è solo un luogo e un tempo, è anche una relazione. È parola proferita e ascoltata, parola di consolazione e di speranza, parola che genera intimità, profezia che spinge a spianare le strade e a preparare la venuta di Dio. Mai il deserto è luogo di estraniazione, tempo di alienazione, rapporto di segregazione. Nel deserto biblico non si fugge dalla storia, ma si entra decisamente nella storia.

Troppo spesso invece pensiamo che la storia della salvezza scorra su un altro piano rispetto alla storia di tutti e di sempre. Un'aggiunta, un'appendice, una sovrastruttura. Per questo prepararsi a celebrare il mistero dell'incarnazione di Dio chiede una vera e propria conversione, impone di interrogarsi sulla propria appartenenza alla storia e di prendersi le proprie responsabilità nei confronti della storia. La buona notizia è proprio questa: è possibile guardare alla storia, anche a quella piena di dolore e di sofferenza, come storia di Dio. Dio la abita, la vive, la redime. Questo è l'Evangelo, messaggio capace di essere lievito della storia universale.

Il Vangelo non è un messaggio facile. Nessuno può appropriarsene, può definirlo, può contenerlo, soprattutto nessuno, neppure il Figlio prediletto di Dio, ne ha visto la realizzazione. Anche per lui l'Evangelo ha richiesto fede e speranza, fiducia e abbandono. E sappiamo bene, benché oggi vada molto di moda affermare il contrario, che credere è più difficile che non credere, guardare al mondo e alla storia a partire dalla fede è più difficile che non accettare che la vita umana appartenga solo alla natura e al tempo, scorra dal suo inizio alla sua fine senza trovare senso in un prima e in un dopo che la trascendano.
La "consolazione" della fede è parola pronunciata al cuore del popolo di Dio, ma è parola profetica, cioè impegnativa. In un momento nel quale la storia del nostro Paese è soffocata dai miasmi di un cinismo che uccide la dignità, il bisogno di Evangelo si è fatto struggente. È la sola consolazione di cui avremmo assoluto bisogno.

Marco pone il termine Evangelo come un titolo alla sua narrazione della vita e della morte di Gesù. Prima di lui nessuno ha mai pensato che la storia di una vita potesse coincidere con un annuncio di salvezza. Se Marco può dire che con Gesù inizia qualcosa di assolutamente nuovo e se i suoi cristiani possono capirlo è perché hanno creduto alla testimonianza della risurrezione: la croce, a cui Gesù viene appeso come un malfattore, non ha dato inizio a un esilio senza ritorno. Per questo fin dall'inizio è possibile affermare che Gesù, la sua persona, la sua vita, la sua attività di predicatore e taumaturgo sono Evangelo che porta a compimento la promessa fatta da Dio, quasi mille anni prima, al profeta Isaia. L'incipit del vangelo di Marco risuona allora come squillo di tromba che annuncia la risurrezione.

Il Messia entra nella storia, assumendone appieno la continuità. Giovanni il battezzatore, l'ultimo profeta d'Israele, l'uomo del deserto, stabilisce il trait d'union senza il quale Gesù non sarebbe altro che mito o leggenda. Per Marco, che non conosce i racconti della nascita di Gesù, è Giovanni Battista colui da cui prende le mosse l'itinerario messianico del profeta di Nazareth.
Ancora una volta, come frequentemente nella Bibbia, la storia diviene visibilmente storia di Dio grazie a un personaggio ben preciso, una persona in cui storia individuale e promessa divina coincidono. I discepoli del profeta del Giordano, che avevano condiviso con lui l'attesa imminente del Regno e avevano accettato il battesimo di conversione, erano convinti che Giovanni avrebbe portato a compimento le promesse divine. Hanno invece dovuto accettare "il più forte".

Si tratta, evidentemente, di una competizione teologica che Marco segnala con forza fin dalle prime battute del suo vangelo: tra Giovanni e Gesù, tra il messaggio dell'uno e quello dell'altro, tra il battesimo in acqua dei discepoli di Giovanni e il battesimo "nel nome di Gesù" dei primi cristiani c'è continuità storica, ma c'è anche una distanza siderale, quella che divide la promessa dal compimento e che separa il tempo della profezia da quello della risurrezione. L'austero profeta del Giordano, che prepara nel deserto la via del Signore, non è degno neppure di sciogliere i legacci dei calzari al mite profeta galileo. Il primo abita il tempo di Avvento, perché è figura dell'attesa. Il secondo, con la sua morte e la sua risurrezione, fa entrare la storia nella pienezza del dono di grazia. Senza il primo, non c'è storia. Senza il secondo, la storia non entra nella sua pienezza.

VITA PASTORALE N. 10/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


torna su
torna all'indice
home