I Domenica di Avvento (B)


ANNO B - 27 novembre 2011
I Domenica di Avvento

Is 63,16b-17.19b;64,2-7
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

LA FEDE È ATTESA
DI UN COMPIMENTO

La liturgia, soprattutto nei cosiddetti "tempi forti", svolge anche una funzione pedagogica perché prende per mano i fedeli e, passo dopo passo, li aiuta a cogliere il significato dei grandi misteri cristologici che sono al cuore del "credo" e, quindi, dell'anno liturgico. L'Avvento è, in fondo, tempo che ci educa ad accettare che al mistero del Figlio di Dio fatto uomo è possibile soltanto avvicinarsi, appropinquarsi, accostarsi. Nessuno può comprenderlo, definirlo una volta per tutte. Diviene accessibile solo parzialmente, in modo approssimativo e grazie a un cammino. Per questo la liturgia delle domeniche di Avvento indica e orienta, segnala punti di vista diversi a partire dai quali la nascita di Gesù può dispiegare la molteplicità dei suoi significati, ogni volta uguali e ogni volta diversi.

L'incarnazione del Messia nella quale i cristiani hanno visto il compimento delle promesse ebraiche, non ha segnato la fine della storia, ma ha aperto la storia alla sua autentica fine. Per questo, l'anno liturgico si chiude e si apre con il duro monito di Gesù sulla vigilanza. È un appello accorato, perché senza vigilanza la fede è sterile. Il discorso apocalittico di Gesù che riprende, estremizzandoli, i toni della predicazione profetica, è proteso verso "la fine", quando finalmente il compimento delle promesse e la fine del tempo arriveranno a coincidere e la presenza di Dio tra gli uomini sarà definitiva.

La vigilanza evangelica esprime insieme l'incertezza di chi sa che non gli è dato conoscere i tempi e i momenti della venuta definitiva di Dio e la certezza che questo non significa che egli non verrà. La vigilanza evangelica insegna a credere che l'ultima parola di Dio non è mai parola di condanna, come l'ultima frontiera della vita non è mai la morte. Il terzo-Isaia, profeta che preconizza come imminente il rientro del popolo nella terra della promessa, esprime con forza che, quando Dio nasconde il suo volto, lo fa solo momentaneamente e da qualsiasi esilio, dunque, c'è ritorno. Perché il Dio di Israele è, sempre, il "Dio che viene", che si fa presente.
Cosa significa credere nel Dio che viene? Solo chi è aperto al futuro lo può capire. "Futuro" non significa soltanto aspettativa di vita, ma significa soprattutto certezza che quanto ha visto la luce non può essere condannato all'ombra di morte. Significa, perciò, "stare attenti" a tutto ciò che attesta la vittoria della vita sulla morte. Non si tratta, evidentemente, di cedere al vitalismo indiscriminato che affligge le società dell'opulenza. Anzi, "stare attenti" è molto difficile proprio per noi che viviamo in un tempo in cui tutto invita alla fretta e in un mondo in cui adulti nevrotici generano bambini ipercinetici. Abbiamo cambiato la nostra percezione del tempo e abbiamo la sensazione che il tempo fugga e sfugga.

Dal punto di vista storico, tutta la predicazione del Regno da parte di Gesù di Nazaret, ma anche tutta la sua vicenda, conclusasi in modo drammatico, e poi l'annuncio della risurrezione avevano acceso e alimentato la speranza di una seconda e definitiva venuta del Messia che avrebbe segnato la definitiva vittoria di Dio, il compimento e la realizzazione della sua sovranità sul mondo e sulla storia, il "regno di Dio".
Il regno di Dio che Gesù aveva annunciato si sarebbe definitiva mente e pienamente compiuto. Il prolungarsi di questa attesa per più di due decenni, la perdita dell'entusiasmo iniziale che era invece sostenuto dalla speranza dell'avvento finale di Dio, spinge gli evangelisti a rinfocolare la speranza come dimensione portante della fede, come dimensione non straordinaria, non entusiasta, ma quotidiana. La "vigilanza" diviene atteggiamento ordinario, quotidiano. Anche se non si può ritenere che la venuta definitiva del Signore risorto sia imminente, non dobbiamo cessare di attenderla.

Come vivere allora "vegliando" se, nonostante tutto, invece di essere vivi e animati, frementi e protesi verso qualcosa, siamo anestetizzati. C'è qualcosa che siamo ancora in grado di aspettare? Possibile che il fatto che abbiamo pressoché tutto ci porti a dimenticare quanto ancora c'è da fare perché il mondo sia più giusto e più umano e siamo senza spinta verso qualcosa da costruire o da ricostruire? Ripugna pensare che sia necessaria una guerra o una grande sofferenza per riacquistare la spinta verso il futuro. Soprattutto in un tempo in cui una crisi voluta, come le guerre, dai ricchi rende già la vita dei poveri un inferno quotidiano.
Il monito di Gesù è lì e ci interpella con la forza della profezia. L'atteggiamento del credente è la vigilanza, l'attesa, nei confronti della storia e del mondo. Un dinamismo che si sviluppa tra due polarità: appartenenza alla storia, perché Dio si rivela dentro la storia, e tensione verso il futuro di Dio che supera il futuro della storia.
Se ciascuno di noi scoprisse qual è la promessa che porta nel cuore, qual è il compimento che desidera e attende, davvero il tempo di avvento sarebbe cominciato e il Figlio dell'uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede sulla terra. Nel grigiore della nostra religiosità appiattita sul presente, ossessivamente incentrata sulla corretta amministrazione delle cose sacre e priva di qualsiasi slancio, l'incipit dell'anno liturgico risuona come una sfida: «Vegliate».

VITA PASTORALE N. 10/2011
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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