II Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B - 15 gennaio 2012
II Domenica del Tempo ordinario

1Sam 3,3b-10.19
1Cor 6,13c-15a.17-20
Gv 1,35-42

LA FEDE È METTERSI
ALLA SEQUELA DI GESÙ

Il cammino del tempo ordinario si apre con una pagina del vangelo di Giovanni, che ci riporta ancora una volta agli "inizi". Non a quel "in principio" prima del tempo da cui tutto è cominciato, ma a un inizio storico, a un preciso episodio circoscritto nel tempo e nello spazio. Più precisamente, a una chiamata. Come nel libro della Genesi, dopo le solenni pagine iniziali in cui l'origine del cielo e della terra viene fatta risalire all'atto creativo di Dio attraverso la sua parola, si passa improvvisamente alla chiamata personale di un nomade del deserto in cerca di cibo, di nome Abramo, così nel vangelo di Giovanni, dopo il prologo che ci ha fatto cominciare a guardare la storia di Gesù Messia a partire dal suo "in principio" in Dio, c'è un racconto di chiamata che, repentinamente, ci dice che per la fede biblica all'inizio nei cieli corrisponde un inizio nella storia.

Tutta la storia biblica è storia di chiamate, a volte inattese, a volte, invece, non del tutto accidentali: Samuele dorme, è vero, ma sta portando avanti il suo servizio al tempio e i due primi discepoli che Gesù chiama alla sua sequela appartengono già al movimento di Giovanni, il profeta del Giordano. Dovremmo forse riflettere più a fondo sulla cosiddetta "crisi delle vocazioni", che percepiamo a volte più come emergenza ecclesiale che non come segno di un trapasso storico necessario. Dovremmo guardare con ben altro coraggio a strane forme di import-export con cui si pretende di parare a carenze numeriche, pur di non interrogarsi su quale sia il modo sovrano con cui Dio intende rivolgere oggi la sua parola al suo popolo.

La chiamata alla fede è invito a mettersi alla sequela di Gesù e porta con sé inevitabili interrogativi: perché è per alcuni e non per tutti? quale ne è la logica? e, soprattutto: come avviene? Sono stati scritti fiumi di parole su questo. A Giovanni bastano poche righe perché non gli serve insistere sui risvolti esistenziali, psicologici o sociologici della chiamata. Lo stesso, in fondo, vale per la chiamata di Samuele. L'essenzialità teologica dei racconti biblici dovrebbe metterei in guardia da spiritualità vocazionali che guardano più all'appagamento dei singoli che alla storia della salvezza. Diversamente che per tanta letteratura vocazionale, per tutta la tradizione biblica la chiamata riguarda Dio prima che gli uomini.

Non stupisce allora che anche per Giovanni la chiamata riveli innanzi tutto qualcosa di Gesù. All'evangelista non interessa tanto la ricostruzione storica, il come e il quando Gesù abbia cominciato ad aggregare intorno a sé il gruppo discepolare, ma piuttosto il significato di questa chiamata. Essa rappresenta l'incipit della rivelazione di Dio al mondo attraverso il suo Messia. Per questo è il primo gesto pubblico di Gesù, come la chiamata di Abramo è il primo gesto compiuto da Dio per farsi presente nella storia. La presenza del Dio biblico nella storia non è una trasposizione dell'immanentismo dalla natura alla storia. Dio non abita la storia né, tanto meno, coincide con la storia, ma il suo spirito dinamizza la storia orientandola verso il suo pieno compimento.
Quelli che Dio chiama sono figure sacramentali. Non perché la chiamata sia un evento straordinario, né si può ritenere che richieda virtù straordinarie. Viene narrato di alcuni ben sapendo che essi hanno il valore di personalità collettive, espressioni di passaggi storici in cui la dinamica dello spirito che anima la storia si manifesta con particolare evidenza. Il Dio che abita nei cieli, il Signore che tanto ama il mondo fino a mandarvi suo figlio accetta le regole di una storia che si costruisce passo dopo passo.

La retorica dell'evangelista Giovanni, sobria e misurata, ha quindi di mira alcune finalità molto precise. Prima di tutto, affermare che la presenza di Dio nella storia procede secondo alcune regole di continuità. Quelli che Gesù chiama sono discepoli di Giovanni. Si può infatti credere a Gesù Messia, se non si aspetta il Messia? Psicologicamente le strade possono essere certamente molte, ma teologicamente la chiamata al discepolato ha bisogno di condizioni ben precise, di appartenenze storiche e di scelte precedenti: i primi due discepoli seguono Gesù perché sono stati alla scuola di Giovanni Battista e lì hanno imparato ad aspettare il Messia. Pietro riceve la chiamata grazie ad Andrea. Nessun fenomeno straordinario, ma la disponibilità a cogliere novità, passaggi, indicazioni.

In secondo luogo per Giovanni l'esperienza della chiamata non è un fatto mistico, non si perde dietro l'inafferrabile, non pretende l'inesauribile, perché i veri "maestri" abitano sempre da qualche parte, non sono mai totalizzanti, non pretendono di essere più grandi dello spazio e più forti del tempo. Chiedono di fermarsi. Infine, anche Giovanni sa che Pietro ha ricevuto, lungo la storia della sua obbedienza alla chiamata, un compito particolare. A lui e non ad altri Gesù ha cambiato il nome, per conferirgli un ruolo simbolico e rappresentativo che va oltre la sua storia individuale. Pietro non è il primo a essere stato chiamato né viene chiamato direttamente dal Messia, ma da suo fratello Andrea. La sua chiamata ha una storia, ma ciò non è mortificante, né gli impedisce di assolvere al ruolo di "Cefa", Pietro.

VITA PASTORALE N. 1/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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