V Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B - 5 febbraio 2012
V Domenica del Tempo ordinario

Gb 7,1-4.6-7
1Cor 9,16-19.22-23
Mc 1,29-39

IL RAPPORTO TRA
FEDE E SOFFERENZA

Il secondo atto della giornata di Cafarnao è una guarigione. Dopo la sinagoga, una casa diviene il secondo scenario dell'attività di Gesù. Subito dopo, però, il terzo scenario sarà la porta della città.

Gesù, che aveva insegnato con autorità, aveva fronteggiato uno spirito immondo e, con la stessa autorità, lo aveva scacciato, ora si confronta con una guarigione. Né è un caso, forse, che la prima a essere guarita dal Messia sia proprio una donna, la suocera di Simone. La potenza del racconto va ben oltre il beneficio immediato che viene a un malato di essere guarito. L'esito del miracolo, infatti, non è semplicemente che la donna recupera la salute, ma la sua diaconia nei confronti del gruppo. Non è certo vero, come troppo spesso si continua a credere, che quando negli scritti neotestamentari ricorre il linguaggio della diaconia, esso ha un senso generico se è riferito alle donne e allude invece all'esercizio di qualche funzione ministeriale se è riferito a discepoli maschi. Per la suocera di Simone, come anche per altre donne dei vangeli, la guarigione coincide con una vera e propria chiamata al servizio nei confronti della comunità.

La scena in casa di Simone, d'altra parte, è assolutamente ridotta all'essenziale: Gesù viene a sapere della malattia della donna, la prende per mano, la febbre è vinta, la donna si mette a servire. Non c'è spazio per nessun commento, per nessuna emozione, per nessuna esaltazione. Proprio in questo sta allora la forza del racconto che vuole essere un paradigma di come si diventa discepoli di Gesù e di cosa può comportare la diaconia. Se, per i quattro uomini che già sono con lui e per altri uomini e donne che verranno dopo, la sequela è partita da una chiamata e ha comportato l'abbandono di una forma di vita per seguire Gesù nell'itineranza missionaria, per questa donna la sequela comincia con una guarigione e comporta di rimanere nella sua casa, ma rendendosi immediatamente disponibile al servizio. Andare per le strade ad annunciare il regno di Dio e restare e mettersi al servizio: senza una di queste due condizioni non ci può essere sequela cristiana. Da questo punto di vista, la descrizione che Paolo fa del suo apostolato è davvero esemplare: ciò che conta è arrivare a tutti!

Colpisce, comunque, che l'attività taumaturgica di Gesù si svolga tra episodi individuali, cui i racconti evangelici danno una profilatura precisa perché, in diversi modi, hanno a che fare con il discepolato, e scene di massa in cui, in modo anonimo, Gesù guarisce un numero imprecisato di malati. Per capire il significato dei testi evangelici bisogna saper andare, nell'uno e nell'altro caso, oltre la cronaca. Altrimenti, non si riconosce all'attività taumaturgica di Gesù il giusto valore. L'annotazione di Marco sull'imposizione del segreto ai demoni è, al riguardo, illuminante. Gesù non è semplicemente un taumaturgo, è il Messia e i suoi miracoli sono i segni dell'avvento del Regno messianico annunciato dai profeti. Per questo essi vanno oltre la cronaca di fatti individuali e raggiungono "a pioggia" chiunque attenda la liberazione dalla sua malattia.

D'altra parte, però, è importante chiarire fin dall'inizio che il riconoscimento della messianicità di Gesù non può fondarsi sui miracoli: che Gesù fosse dotato di potenza taumaturgica potevano attestarlo anche i demoni. Siamo all'inizio del primo dei vangeli e Marco impone con decisione quale sia il punto di vista indispensabile per ascoltare e accogliere la buona notizia senza adulterarla: considerare la narrazione evangelica come un cammino, un percorso in cui nessun passo basta a sé stesso, ma è indispensabile per progredire nella comprensione di quello che fin dall'inizio l'evangelista ha presentato come «vangelo di Gesù Cristo».
Marco sa molto bene che per confessare che Gesù è veramente il Figlio di Dio bisogna arrivare fin sotto la croce. Solo lì è possibile capire che il suo ministero è stato davvero un "Vangelo", una buona notizia di salvezza.

Il potere taumaturgico non fa dunque di Gesù né il Figlio di Dio né il Messia. Del resto, neppure il più ateo dei medici può rifiutarsi di riconoscere che esistono forze che sfuggono al controllo della ragione scientifica. Il brano del libro di Giobbe rappresenta allora un contrappunto necessario. Impone infatti di confrontarci con la questione del rapporto tra fede e sofferenza.
Ci sono luoghi della fede in cui questo rapporto è preso sul serio, accompagnato, discusso. Ci sono persone capaci davvero di farsi deboli con i deboli e di dire parole e fare gesti che, a loro modo, se non sono taumaturgici, sono almeno balsamici perché, anche se non sanano i corpi, aprono alla speranza di un Regno messianico che si compirà davvero per tutti. Pretendere di abbindolare coloro che soffrono con discorsi presuntamente consolatori, cercare di sublimare il loro dolore invece di farsi sublimare dal riconoscimento della violenza e dell'ingiustizia di cui esso è manifestazione equivale invece alle confessioni messianiche pronunciate dai demoni. Nella Bibbia, il libro di Giobbe rappresenta davvero lo spartiacque su cui la fede è costretta a misurarsi.

VITA PASTORALE N. 1/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


torna su
torna all'indice
home