Coniugare pace e solidarietà



Il diaconato in Italia n° 172
(gennaio/febbraio 2012)

EDITORIALE


Coniugare pace e solidarietà
di Giuseppe Bellia


Coniugare solidarietà e pace è diventato di questi tempi, anche per l'esperienza diaconale, un binomio arido e impraticabile e il lettore attento nelle pagine di questo numero ne può avvertire il peso. Eppure, intuitivamente, per un cristiano mettere insieme la testimonianza della compassione istintiva verso il prossimo con il bisogno e la speranza di un vivere non conflittuale e sereno si presenta come un'impresa agevole oltre che coerente con il proprio credo religioso. Su questo argomento ci si aspetterebbe una riflessione pastoralmente e teologicamente matura, avvincente e un'informazione ecclesiale conseguente in ambito cristiano e invece, al di là dei buoni propositi, si assiste alla ripetizione di abusate formule consolatorie che non ispirano nessuno e disorientano non pochi. Si può constatare dal disinteresse e dal mutismo che accompagna tutti i documenti di carattere sociale prodotti dall'episcopato, compreso l'ultimo "Per un paese solidale".
Che cosa sta accadendo realmente alle nostre comunità cristiane assenti sul piano sociale o tristemente coinvolte da contesti politici moralmente più che discutibili? Negli anni passati si era fatta strada l'idea che la solidarietà, sia quella primordiale e meccanica delle società rurali, sia quella evoluta e organica delle civiltà industriali, era roba d'altri tempi. Era giudicata come un'azione moralmente virtuosa e socialmente meritoria che però ostacolava e impediva ogni vera e duratura soluzione dei conflitti continuamente riproposti dal bisogno di giustizia che gruppi e individui non cessavano di avanzare a livello relazionale e sociale. L'impallidire della visione solidaristica stava però incrinando le stesse fondamenta del vivere sociale e, soprattutto, del sentire comunitario imperniato sulla possibilità dell'agire nobile e disinteressato dell'uomo verso il suo simile.
In realtà, in una società a forte caratterizzazione di mercato, o meglio in una società contrassegnata da rapporti di affari, dove prevale come ovvio e naturale il legame di interessi, non sempre eticamente sostenibili, sono molti i cristiani che non sanno più che valore dare al dono, che funzione assegnare alla gratuità delle azioni umane. In una convivenza imperniata sullo scambio mercantile del do ut des non ha senso quel comportamento intrinsecamente umano che si sottrae al calcolo, che non partecipa alla logica meschina della controprestazione. La nostra società ha moltiplicato ragioni e pretesti che giustificano lo scambio di doni, ma quasi tutti gli appuntamenti con le occasioni in cui si è chiamati a donare, sanno di comportamenti interessati. I regali fanno parte di una strategia relazionale diffusa e ordinaria, ormai accreditata nell'immaginario collettivo come un diritto implicitamente riconosciuto che richiede a sua volta l'impegno di un contraccambio, di una restituzione del dono di eguale impegno e costo.
Nel tempo della globalizzazione e del precariato il dono come atto che non mira a una reciprocità di ritorno ha perso il suo spazio relazionale. Si assiste anzi a una metamorfosi del capitalismo che si mostra flessibile senza perdere il suo volto crudele e impietoso. Ha sostituito la precedente e familiare tradizione comunitaria con la rutinaria e artificiale pianificazione industriale, cambiando il volto arcigno dei proprietari con il non volto dei menager efficienti e indistinti. Si arriva all'assurdo di un'assistenza sociale pianificata di tipo formale e impersonale, dove ci si fa carico dell'altro, senza averne conoscenza diretta: nelle grandi mediazioni organizzate il prossimo è riconosciuto senza essere stato conosciuto. Davanti al prevalere di una élite efficientista, globale e cosmopolita, il crollo della communitas cristiana sembra ormai irreversibile.
Il declino della comunità si avverte anche nello scemare di quella sensazione piacevole che emanava dalla stessa parola, perché in passato si riteneva che le compagnie e le società potevano essere anche disutili e cattive, mentre la comunità invece no, perché avvertita come intrinsecamente buona e affidabile. Infatti, la stessa visione della comunità, un tempo giudicata sempre come realtà personale, positiva e benefica rispetto all'anonimato delle istituzioni sociali, ha perso il suo riferimento etico per diventare un luogo di aggregazione di gruppi e di fazioni che aspirano solo ad avere ambiti di recupero dell'identità perduta o luoghi di rifugio e di difesa di un'identità insidiata.
Conosciamo così comunità arroccate come cittadelle immaginarie, verso cui gli individui fanno ricorso per raggiungere un livello di appartenenza che li qualifichi e li preservi nelle difficoltà delle mutate relazioni sociali. Esistono diverse strutture comunitarie dove prevale una forma di raggruppamento di tipo verticale che si manifesta ora nell'enfatizzazione delle consuetudini domestiche ora nel recupero delle tradizioni locali o territoriali; in alcuni casi il valore aggregante è di natura mercantile e industriale in altri di tipo estetico o mediatico. Per onestà si deve ricordare che anche le aggregazioni sorte a motivo del condiviso interesse religioso o generate da forti istanze etiche hanno la stessa configurazione verticale che di fatto mortifica o ignora la relazione personale. Dove manca la dimensione orizzontale e circolare della relazionalità umana tra i diversi associati, la comunità si riduce a parodia della stessa socialità e non risulta più allettante. Come discepoli di Cristo dobbiamo confessarlo con leale assunzione della nostra colpevole povertà che i ritardi nella progettazione di un avvenire di solidarietà e di pace non ci hanno impegnato concettualmente e operativamente. Partendo dal concetto evangelico di "agape", che racchiude in sé la tensione tra amore e giustizia, era possibile pensare un mondo in cui ha senso e dimora la logica del dono, del gratuito, del dare senza attendersi nulla in cambio. Questa riflessione purtroppo non viene da un ambito teologico-ecclesiale ma dalla ricerca laica dei sociologi impegnati nella elaborazione di una sociologia morale, ovvero di una scienza umana impegnata a descrivere e comprendere le ragioni morali delle azioni. In particolare i sociologi hanno preso atto che non esiste solo una socialità fatta di dispute, di conflitti e di rivendicazioni, dove tutti sono vincolati dall'obbligo di stabilire instabili relazioni di equivalenza sociale. È, infatti, altrettanto innegabile constatare che in molti casi l'agire degli individui si svolge in modo pacifico, configurandosi come una realtà vera, spesso lasciata in ombra dalle teorie dell'azione, che riguarda gli 'stati di pace'.
Si dà quindi un "regime di pace" laddove alcuni individui, rinunciando a esercitare quello scambio di doni e favori che sta alla base di ogni giustizia retributiva, si sottraggono alla cattura della logica calcolatrice per approdare agli orizzonti di pace dove risiede lo stato del "gratuito", dove dimora la logica del dono che non aspetta gesti di ritorno. In questi casi è dato di vedere come le persone a volte danno più di quanto è richiesto in quella circostanza dalla mutata situazione. L'amore di cui parlano i sociologi non è quello metafisico e assoluto della teologia e non duplica l'agape evangelico del Regno di Dio; è piuttosto un amore feriale che sa di doversi confrontare con il brutto fosso della storia, con le esigenze prosaiche della quotidianità.
Gli stati di pace illustrano quelle situazioni inattese e tuttavia reali in cui gli uomini nelle loro travagliate esistenze alternano momenti di conflitto con relazioni umane più vitali in cui si sperimenta il donare come intenso piacere di dare che non si preoccupa di chiedere il giusto ricambio. La sociologia morale ci permette di prendere atto di un fatto: l'agape non è una progettualità illusoria frutto di una mentalità ingenua e devota, ma ha una sua fattiva struttura sociale che trova in se stessa le ragioni della propria sussistenza. Insomma la logica della gratuità è produttiva di pace nella società degli uomini e, per quanto rara e modesta, non è per niente innocua e trascurabile se la sociologia più libera e controcorrente è stata obbligata a riconoscerne la forza vitale e dirompente che invita ad andare oltre gli steccati dei vecchi schemi.
L'azione dei cristiani avrebbe molto da dire e da scommettere sul primato dell'agape proprio in un momento come questo in cui si resta prigionieri di mentalità ottuse che non sanno prospettare nulla che non sia di semplice contenimento dei cedimenti continui della società civile. E il ministero diaconale non avrebbe qualcosa di concreto da mostrare in ordine alla gratuità dell'azione salvifica per dare respiro e speranza all'attuale opaco vivere quotidiano?

----------
torna su
torna all'indice
home