Temere Dio: paura o sapienza?



Il diaconato in Italia n° 172
(gennaio/febbraio 2012)

STUDIO


Temere Dio: paura o sapienza?
di Giuseppe Bellia


Il Dio trascendente e lontano, pronto all'ira, lento nell'elargire i suo doni, ha ceduto il posto a un Dio amorevole e benigno. Che fine ha fatto il timor di Dio? E i poveri, un tempo interlocutori diretti di quanti agitavano un Dio tiranno e dispotico, oggi non hanno più nulla da temere?
Il timor di Dio non ha più vita facile nella Chiesa, ma i poveri li abbiamo sempre con noi. Cosa siamo disposti a dare loro? Le ire del dio Mercato hanno preso il posto delle prime, ugualmente imprevedibili e implacabili. E le fatiche dello scriba solleveranno gli animi affranti?



«Ma presso di te vi è il perdono affinché tu sia temuto» (Sal 130)
Il «timore di Dio» è una di quelle espressioni, un tempo cariche di senso per la condotta morale e per la vita spirituale dei cristiani, divenute in breve tempo desuete fino a essere obliate nel lessico dell'ordinaria riflessione postconciliare, perché disutili, se non addirittura controproducenti, sul piano della comunicazione umana e pastorale. Ma anche perché fatta oggetto di aspre critiche da parte di un pensiero, laico e no, che non trova eticamente corretto far dipendere dal timore le libere scelte dell'uomo.
Nell'immaginario comune, infatti, «temere Dio» appare come una locuzione sbiadita, inerte, quantomeno poco attraente che induce alla reticenza non pochi cristiani, forse perché strettamente congiunta e compromessa con «un'immagine di Dio troppo distante e fredda - quando non terroristica e faraonica - segnata da una trascendenza arcigna e separata, piuttosto che compatibile, con quella all'opera nella storia salvifica centrata in Gesù Cristo».
Così argomentava Roberto Vignolo, mostrando con fine lettura come «in nome del primato salvifico del rapporto con il Dio d'amore, era subentrata una retorica dell'amore con pretese egemoniche, che per fortuna cominciavano giustamente a stare troppo strette»1. Un sentire biblico, attrezzato esegeticamente, potrebbe aiutare a superare lo stallo ermeneutico e far recuperare al «timore di Dio» un senso più autentico e teologico. Si deve però convenire che in realtà, anche l'esegesi più accorta non può aggirare o eludere la questione spinosa e oggettiva del «timore/paura di Dio» presente in abbondanza nelle pagine dell' Antico Testamento. Come si vedrà, siamo davanti a un percorso teologico complesso e in salita dove la categoria ambigua del «timore del Signore» esprime le polarità imprescindibili di ogni autentica rivelazione divina: la santità di un Dio che trascende la creatura che pure è fatta a sua «immagine» e secondo la sua «somiglianza» (Gen 1,27-28). Il «timore» serve a suggellare la fede in chi è insieme vicino e lontano, presente e assente, amabile e tremendo; predicati opposti che, come in un ossi moro, non si contraddicono, non si elidono ma collaborano a svelare qualcosa del volto nascosto, e in definitiva non «religioso», del Dio biblico.
Chi si è cimentato a ricomporre l'evoluzione di senso del «timore di Dio», attraverso l'uso linguistico riscontrato negli scritti biblici, ritiene di poter ricostruire un percorso teologico in crescita che fa passare dall'iniziale terrore/paura della divinità dei testi più antichi, al «timore riverenziale» della tradizione profetica, per giungere al «timore del Signore» inteso dai sapienti come principio della scienza e approdare infine al senso progredito del «santo timore» attestato nelle pagine neotestamentarie. In realtà questa linearità di progressione etico-religiosa è avvincente e ha una sua coerenza, ma è difficile da sostenere perché i numerosi e vari termini che fanno riferimento alla paura o al timore (per un totale di 436 ricorrenze) non ci permettono di trovare espliciti riferimenti testuali a riprova di questo percorso ermeneutico. Anche se questo percorso teologico non può essere convalidato sul piano letterario, è tuttavia opinione largamente condivisa che l'espressione «timore di Dio» ha subito una serie di adattamenti e di mutazioni prima di giungere a quel significato divenuto in seguito corrente nelle nostre traduzioni.
L'espressione «temere Dio» del resto ricorre anche nel racconto del sacrificio di Isacco («ora so che tu temi Dio»: Gen 22,12), dove però il «timore» ha un'evidente peculiarità di fede per la piena adesione di Abramo all'oscuro volere di Dio. La locuzione «timore/paura» si rinviene nell'atteggiamento dello scaltro Giacobbe davanti alle temute reazioni di Labano (Gen 31,31), oppure s'incontra nello stato d'animo degli Ebrei in fuga di fronte all'esercito degli Egiziani che li stava per raggiungere (Es 14,10). In un testo, forse più antico, si rintraccia il termine «terrore/timore del Signore» herdat 'Elohim che colpisce i soldati e il popolo tutto per quanto Dio ha fatto compiere di prodigioso a Gionata (1Sam 14,15); il senso di «spavento/stupore» si trova anche in ciò che sperimenta il fuggiasco Giacobbe in quel luogo terribile che chiamerà Beth'el, «casa di Dio» (Gen 28,16-19). In questo racconto teofanico si coglie un timore diverso, intriso di meraviglia per il luminoso, un senso suggerito dalla stessa parola ebraica yir'ah, un vocabolo che contiene la radice 'or, «luce». La frase «mah nor'a, ha maqom hazeh», (quanto è terribile questo luogo), potrebbe perciò intendersi «quanto è luminoso questo luogo».
Un timore/stupore che si può registrare anche nei racconti delle teofanie che ha per protagonista Mosè (Es 3,2-5; 19-20) e poi il profeta Elia (1Re 19,9-18) dove la divinità non è più percepita come minacciosa, ma come presenza benevola e addirittura vogliosa d'intensa relazione con l'uomo. Del resto, il fatto che il vocabolo ebraico yir'ah esprima sia la paura che lo stupore sta a indicare che l'esperienza del sacro deve mantenere per l'uomo biblico qualcosa dell'uno e dell'altro significato, conservando così integre le polarità di trascendenza e di immanenza come concetti opposti ma non contraddittori. Nell'esperienza religiosa d'Israele, accolta dalla Chiesa delle origini, accanto all'affabile immanenza di una divinità benevola e amica dell'uomo, deve necessariamente coesistere l'ineffabile trascendenza della santità del Dio dei padri. Una preoccupazione questa, precisa e costante, comprovata anche dalla tradizione profetica che presenta Jahvé come «terribile/temibile» per le sue grandi imprese, ma anche per la sua sublime santità: «grande e davvero terribile sarà il giorno del Signore» (GI 2,11; 3,4).

Nella letteratura sapienziale
Nella letteratura sapienziale, specialmente nei salmi, il timore di Dio si contraddistingue sempre più come un dato relazionale che caratterizza le giuste disposizioni interiori del credente verso Dio, permettendo così all'uomo di realizzare se stesso. Si accompagna quindi con altri tipici atteggiamenti etico-religiosi come l'umiltà, la fedeltà e la fiducia in Dio che procurano al «timorato di Dio» sicurezza e gioia. Chi «teme Jahvé non manca di nulla» (Sal 34,10) e può diventare, come Abramo, l'amico in cui Dio confida: «Jahvé si rivela a chi lo teme, gli fa conoscere la sua alleanza» (Sal 25,14).
Il timore di Dio permette al credente di modellare il suo abituale atteggiamento interiore ed esteriore secondo verità e giustizia. In questo modo si perfeziona il sentire incerto dell'uomo che può sintonizzarsi con il pensiero fedele del suo Creatore potendo giudicare fatti e parole secondo Dio, divenendo così il «santo timore» l'inizio di ogni sapienza (Pr 1,7; Sir 1,16). Ma proprio l'approdo ultimo del timore di Dio nella effervescente tradizione dei sapienti scribi d'Israele, e nel libro del Qohelet in particolare, merita una riflessione più approfondita, perché coinvolge la riflessione sul dibattito interno al giudaismo del secondo Tempio, che tanta parte ha avuto nel preparare la strada alla rivelazione neotestamentaria. Nella convulsa stagione che vede la nascita del giudaismo, Qohelet volendo dare un senso all'oscura e misteriosa presenza di Dio nel mondo e nella storia, ha cercato di elaborare una sapienza per il suo tempo di crisi. Per analizzare l'evoluzione del timore di Dio nell'Ecclesiaste, si può cominciare con l'osservare che nel libro non compare mai la tradizionale espressione «timore del Signore», mentre 9 volte s'incontra il verbo «temere Dio». Il tema di natura teologico-esperienziale è presente nella letteratura sapienziale di Israele ma in Qohelet sembra assumere una valenza particolare. Di sicuro non può essere ridotto a un atteggiamento di rassegnata passività del credente davanti all'indecifrabile agire divino; né può essere liquidato come aggiunta redazionale di un discepolo devoto, il secondo epiloghista di Qo 12,13, preoccupato di riequilibrare in senso più tradizionale e ortodosso il pensiero sconcertante del suo maestro.
Il differente e intenzionale uso linguistico sembra segnalare l'intento innovativo, e anche polemico, dell'ignoto autore verso la tradizione sapienziale arroccata sui canoni di una irrealistica e accomodante retribuzione divina d'impronta deuteronomistica e sacerdotale. Il valore della Legge come garanzia di felicità si accompagnava con un'ottusa preclusione verso ogni tipo di confronto con l'egemone cultura ellenistica. Un conservatorismo formale e gridato che non preservava le cerchie aristocratiche dal degrado morale e dallo sfruttamento delle classi povere del paese, registrato peraltro senza pathos dal Qohelet (4,1-3; 5,7).
Per sciogliere il nodo della reale continuità e/o discontinuità tra l'Ecclesiaste e la tradizione che lo precede diventa essenziale l'esatta comprensione della portata linguistica ed ermeneutica da assegnare alla paradossale e «imbarazzante» pericope di Qo 7,15-18 che un'esegesi minuziosa da tempo indica come elemento centrale nell'economia teologica dell'Ecclesiaste.

Nei miei giorni vani ho visto di tutto:
un giusto che va in rovina nonostante la sua giustizia,
un malvagio che vive a lungo nonostante la sua iniquità.
Non essere troppo giusto
e non essere saggio oltre misura:
perché vuoi rovinarti?
Non essere troppo malvagio
e non essere stupido.
Perché vuoi morire prima del tuo tempo?
È bene che tu prenda una cosa senza lasciare l'altra:
in verità chi teme Dio riesce bene in tutto.


Tra giudaismo e grecità, la risposta che Qohelet dà al corretto comportamento del vivere umano, non è una teoria del giusto mezzo, una specie di aurea mediocritas tra gli eccessi dell'essere troppo stolto o dell'essere troppo saggio, ma quanto di più "laico" e di più tradizionale insieme l'autore poteva proporre: «temere Dio» avendo piena consapevolezza che «tutto è vanità»2. «Timore di Dio» e «vanità di tutte le cose» non si devono però intendere come antinomie dottrinali o antilogie letterarie, ma come elementi descrittivi di quella teologia dal profilo tagliente che tendeva a disegnare la difficile condotta del credente stretto, secondo Qohelet, tra due verità inconfutabili. Timore e vanità si pongono come i due punti focali di un'ellisse e organizzano tutto il materiale narrativo e teologico del testo, ricorrendo in forma inclusiva all'inizio e alla fine dell'opera (1,2; 12,8 e 12,13).
L'insistenza nel ripetere fino quasi a sovrapporsi di queste due verità sembra costituire una sorta di doppio centro linguistico e tematico. Legate al polo linguistico-concettuale della vanità ci sono termini, o se si vuole «vocaboli guida», come «fatica», «lavoro», «dolore», «cercare» che sembrano essere il necessario corredo di ogni serio sforzo umano che tenta di giungere alla conoscenza partendo dal basso; mentre al timore di Dio sono legati termini come «dono», «godimento della vita», «gioia», realtà provvidenziali generosamente dispensate dall'alto come benefico frutto della sapienza3.

La novità di Qohelet
Vivere al cospetto del giudizio di Dio non è però una formula etica di moderazione verso ciò che è fuori misura nell'agire dell'uomo, non è un punto di equilibrio tra opposti comportamenti, ma un criterio di discernimento autonomo, una terza via che definisce la stessa religiosità dell'uomo. È l'originale via biblica che consente al credente di entrare effettivamente in un giusto rapporto con la divinità.
Si deve tuttavia rimarcare che questa risposta matura, nuova e antica insieme, è stata resa possibile anche grazie a quel contatto, a quel confronto che l'ambiente culturale di Qohelet ha, necessariamente, dovuto stabilire con il pensiero etico greco e con quello di Aristotele in specie anche se questo determinante influsso è negato da alcuni studiosi4.
L'irrompere del nuovo mondo ellenistico, con la forza della sua cultura antropocentrica vincente e con il peso della sua corruzione e immoralità impunite, mostrava l'inadeguatezza delle risposte antiche date sia dalla tradizione biblica sulla giusta retribuzione divina, sia dall'etica greca della moderazione, obbligando i sapienti a cercare soluzioni più attuali e soddisfacenti. Qohelet mostra di approdare lentamente e a fatica al «temere Dio» sul piano esistenziale, non come conclusione etica derivante da una concezione metafisica, ma come frutto di una esperienza lucida che, nella fede, dispone ad accettare l'ineffabile volontà divina (7,13-14) e i limiti di una conoscenza umana che, per quanto plausibile, resta inadeguata e sempre in fieri. La singolarità della soluzione qoheletiana sta in questa riuscita combinazione di carattere ossimorico dove, discontinuità culturale e continuità religiosa s'incontrano nelle polarità inseparabili del timore e della vanità. Più che binomio letterario si tratta di un vero ossi moro teologico e insieme etico che consente a Qohelet di criticare apertamente la propria tradizione, riletta verosimilmente sotto l'incalzare delle forti suggestioni e provocazioni provenienti dal pensiero razionale del mondo greco, e di opporre, davanti alle soluzioni disgregatrici esterne e interne, una reale tenuta e una rinnovata capacità di esplorazione della propria identità religiosa.
L'amabile e irriverente ironia dell'Ecclesiaste sui limiti conoscitivi della sapienza tradizionale, e del conoscere umano in generale, pur mostrando inesorabilmente i rami secchi da tagliare, non ha scoraggiato l'impegno per un'ulteriore e ardita ricerca, quanto piuttosto ne ha permesso la crescita realistica, aperta alla sconcertante e imprevedibile novità di Dio. Forse in questo Qohelet, nell'oscuro tempo di mutazione del primo ellenismo, è stato l'interprete più fedele della parresia ereditata dai greci.

Congedo
Il percorso tematico qui prospettato partiva dal prendere atto di una reticenza eccessiva che da alcuni decenni ha compromesso il senso biblico del «timore di Dio» fino a essere osteggiato e obliato. Bisognava ricondurlo alle sue vere radici, al suo complesso divenire, perché anche una parola biblica, quando è solo accennata, interrotta o detta a metà, non permette di cogliere il senso autentico. Una parola travisata inganna la memoria che, a sua volta incrinata, collaborerà a distorcere il valore della parola donata come luce e non come minacciosa diffida.
Una vicenda ermeneutica questa, antica e nuova, già narrata nella prima tentazione quando il tentatore si offre come interprete coscienzioso della vera e dissimulata intenzione divina. A chi è già fatto «a immagine e somiglianza» di Dio (1,26-27), offre la possibilità di diventare «come Dio», per conoscere il bene e il male (3,5). La parola del Creatore è mistificata e il dubbio accolto insinua il sospetto verso l'affidabilità divina, generando un'istintiva diffidenza verso il suo annuncio di vita e non di morte.
Una sfiducia indotta ad arte che, passo dopo passo, s'impadronisce del cuore dell'uomo fino a diventare resistenza sorda e triste ribellione. Di generazione in generazione si ripropone il dubbio e si perpetua il sospetto che dietro il premuroso consiglio divino si nasconda un'oscura trama di prevaricazione, un disegno intimidatorio che serve a coprire l'ambiguità di Dio. Il suo parlare con l'uomo non appare più disinteressato, pieno di grazia e di verità, e la sua stessa presunta sapienza può essere smascherata: ciò che per Dio è male diviene allo sguardo dell'uomo un bene appetibile, anzi un guadagno irrinunciabile. A quel punto la tentazione prende la forma dell'illusione perfetta, perché il consiglio dato a protezione della debolezza umana appare come l'oscuro e malevolo raggiro di una potenza divina mendace e prevaricatrice. Il «timore di Dio» non suona più come parola sapiente e affidabile.
La riflessione teologica del Qohelet ci ha condotti dal tutto compreso come vanità al «timore di Dio» che è tutto (12,13-14), facendoci percepire l'ossimoro di una sapienza donata dall'alto che tuttavia attende sempre di essere accolta dall'uomo. Il convergere della realtà umana e divina nell'opera del sapiente deve preservare la distinzione delle rispettive identità in tensione verso l'unità. Da qui l'insistenza sul «temere Dio» come luogo teologico di una relazione adulta e non come atteggiamento di rassegnata impotenza della creatura davanti all'agire arbitrario di una divinità sfuggente. Il «timore di Dio» consente all'uomo di coniugare l'affabile immanenza dell'autorivelazione divina con la maestosa trascendenza della sua inarrivabile santità: «presso di te vi è il perdono, affinché tu sia temuto», recita il testo ebraico (Sal 130,4).
L'hebel e il timore di yhwh sono polarità irriducibili che Qohelet ha consegnato a chi a fatica ricerca la sapienza come punti fermi di una conoscenza rinnovata e mai conclusa. Sono luoghi inevitabili di una fede matura e disincantata che sa di dover attendere da Dio un supplemento di luce per continuare a cercare ancora.

Note:
1 R. Vignolo nell'Introduzione a B. Standaert, Il timore di Dio è il suo tesoro, Vita e Pensiero, Milano 2006. Cf. anche P.A. Sequeri, Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993.
2 Il «giusto mezzo» non si deve identificare con l'aforisma aristotelico, ma come homonoia, accordo armonico di parti diverse che implica il riconoscimento di un certo dualismo, di una sorta di polarità tra bene e male: Platone, Repubblica, IV, 430 d e sgg.
3 A. Niccacci, Qohelet o la gioia come fatica e dono di Dio a chi lo teme, in Liber Annuus 52 (2002) 29-102.
4 Problematico resta il riscontro storico e documentario che permette di comprovare l'effettiva presa che il pensiero greco ed ellenistico, hanno potuto avere su Qohelet, dal momento che ciò che hanno di greco è, in parte, riconducibile alla stessa eredità sapienziale ebraica; cf. L. Mazzinghi, Qohelet tra giudaismo ed ellenismo e G. Bellia, Il libro del Qohelet e il suo contesto storico-antropologico, in G. Bellia. - A. Passaro, Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione teologia, Paoline, Milano 2001.



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