III Domenica di Pasqua (B)


ANNO B - 22 aprile 2012
III Domenica di Pasqua

At 3,13-15.17-19
1Gv 2,1-5a
Lc 24,35-48

RADICATI NELL'AMORE
NE MATURIAMO I FRUTTI

Anche per Luca, come per Giovanni, l'esperienza delle apparizioni del Risorto ha un carattere strettamente individuale e, insieme, fortemente comunitario. Il cammino dei due di Emmaus ha per l'evangelista valore paradigmatico e rimanda al percorso richiesto a chiunque voglia appartenere alla comunità dei discepoli del Risorto. Indica infatti nella conoscenza delle Scritture e nella pratica comunitaria dello spezzare del pane i due momenti imprescindibili della catechesi cristiana e della vita comunitaria.
È indiscutibile che Luca riconosce assoluta centralità allo spezzare del pane come momento in cui è possibile fare esperienza del Risorto in termini sacramentali. La celebrazione eucaristica è davvero il banco di prova della nostra ecclesialità. E la riflessione dovrebbe essere portata avanti con grande serietà. Dopo aver pagato gli errori dell'epoca della precettistica, paghiamo ora il prezzo di una prassi liturgica che esclude invece di includere, incapace di farsi accoglienza e comunicazione, che fa fatica a trovare la misura del bello. Sempre "troppo": troppo distante, troppo uguale, troppo insignificante, troppo formale. Paghiamo il prezzo di aver costretto tutta l'eucaristia della Chiesa dentro la celebrazione della messa.

Rendere grazie: la grande liturgia della Chiesa non può essere impregnata che dal rendimento di grazie. Non è possibile, però, che la Chiesa non sappia fare altro che celebrare messe, non è possibile che le comunità cristiane non si riuniscano altro che per celebrare messe, che ogni azione sacramentale debba avvenire dentro una messa, che un parroco debba dire due se non a volte tre messe domenicali. Il Vaticano II aveva capito che il rinnovamento della Chiesa e la rinascita della prassi religiosa sono sempre strettamente connessi alla pratica liturgica; aveva capito esattamente, cioè, quello che Luca, all'inizio dell'esperienza ecclesiale cristiana, aveva già perfettamente messo in luce. L'eucaristia non è una pratica di pietà. L'eucaristia non si riduce al tempo circoscritto della celebrazione, ma rimanda a una vita di fede seria e robusta, condivisa e praticata. Una vita di fede nutrita dalla comprensione delle Scritture ma anche da una spinta vigorosa verso il cambiamento.

Come ci mostra tutta la predicazione kerigmatica del libro degli Atti, quando la predicazione cristiana era fortemente animata da una tensione missionaria, l'appello a "cambiare vita" faceva parte delle condizioni fondamentali dell'evangelizzazione. In ambito missionario l'espressione significava abbandonare alcuni costumi religiosi per assumerne altri o anche appropriarsi di una prassi morale consona ai principi in cui si andava esplicitando la confessione di fede cristologica. L'enfasi, comunque, cade su "vita". La sacramentalità cristiana e, in modo tutto particolare quella eucaristica, trova il suo senso solo all'interno di una concezione sacramentale di tutta la vita. È questa la grande lezione biblica ed è per questo che catechesi biblica e azione sacramentale non andrebbero mai disgiunte.

"Cambiare vita": la questione delle radici ebraico-cristiane dell'Europa e quella del diritto a esporre simboli cristiani in luoghi istituzionali, che hanno acceso tanto gli animi, appaiono oggi pallidi fuochi di paglia di fronte a un'Europa che affronta scelte serie, che riguardano il diritto alla vita di milioni di suoi cittadini, confermando i potenti sui troni e affamando gli umili.
Il mercato impone come regola del vivere quella che in natura si chiama selezione naturale: i più forti ce la fanno, per gli altri non ci può essere scampo. La forza dell'umano non sta forse proprio nel contrastare questo meccanismo ed ergersi a tutela di coloro che la legge della natura condanna a soccombere? Non sta in questo, forse, il segreto del sesto giorno della creazione, quello in cui Dio ha stabilito la differenza tra l'essere umano e il resto del mondo vivente? Solo chi è chiamato a prendersi cura del mondo può capire che significa rendere grazie. Solo chi ha capito cosa significa rendere grazie a Dio per un mondo avuto in dono, sa celebrare l'eucaristia.

Una comunità eucaristica si misura non sul numero o la pomposità delle sue celebrazioni della messa, ma su come prepara se stessa perché il momento celebrativo divenga un'epifania, una manifestazione del Risorto, un momento in cui la pace messianica viene effusa su coloro che credono, un momento da cui si riceve benedizione e conferma per una fede che è chiamata a diventare testimonianza.
Nessuno può celebrare l'eucaristia da solo, senza tradirla. Luca ama presentare il Risorto come colui che mangia con i suoi discepoli. Non solo spezza il pane, ma mangia. Gesù, quello che la gente chiamava il mangione e beone, ha potuto lasciare l'eucaristia come segno della sua presenza vivente in mezzo ai suoi perché per tutta la sua vita aveva testimoniato la benedizione del sedere a mensa e l'appello a un regno che i profeti avevano presentato come un banchetto.
Dov'è la Chiesa del banchetto, del pane condiviso, dell'abbondanza spartita? Non un'abbondanza di denaro e di potere. Un'abbondanza di eucaristia, cioè di benedizione. Un'abbondanza di intelligenza delle Scritture, una Chiesa che annuncia il perdono cominciando da Gerusalemme, dalla città santa?

VITA PASTORALE N. 3/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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