IV Domenica di Pasqua (B)


ANNO B - 29 aprile 2012
IV Domenica di Pasqua

At 4,8-12
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

IL BUON PASTORE
HA CURA DEL GREGGE

Il tempo pasquale è scandito dalla riflessione sul mistero della risurrezione, un evento attestato soltanto dalla testimonianza di coloro che hanno "visto" il Risorto e che ha avuto, come ricaduta immediata, la diffusione della buona notizia di salvezza dentro la storia degli uomini e per tutti gli uomini: se descrivere la risurrezione in quanto fenomeno è pressoché impossibile, è possibile invece parlare dei suoi effetti. La vicenda, che prende le mosse dal martirio del primo discepolo del Risorto, ne è chiara attestazione: a partire da qui, l'Evangelo supera qualsiasi confine e comincia a imprimere tracce di gioia dovunque arriva.
Storie come quella di Filippo e quella di Paolo, e insieme alle loro quelle di molti altri, sono, prima ancora che esemplari, significative. Pur non avendo conosciuto Gesù, entrambi hanno preso sul serio l'Evangelo della risurrezione fino al punto d'intessere una strategia missionaria, il primo, che lo porterà a uomini e donne estranei e stranieri, e una strategia persecutoria su larga scala, il secondo. La risurrezione fa da spinta propulsiva, accende passioni, fa maturare decisioni, come tutti gli interventi di Dio nella storia. Crea nuova storia dentro e accanto agli avvenimenti, perché li segna con la caparra di un non-ancora che è cominciato, ma deve arrivare al suo compimento.

C'è un "sapere", come dice l'autore della prima lettera di Giovanni, che equivale a un "vedere". Ed è dono che viene dall'alto, di cui non siamo artefici e di cui solo in parte siamo custodi. "Vedere" ciò a cui tutto è destinato: non c'è bisogno di trovare parole altisonanti per dirlo né, tanto meno, è possibile arrogarsene il copyright. Lucio Dalla lo ha saputo dire nel suo stile, senza chiose erudite, suggellando la sua vita con le parole: «È solo il primo tempo». La risurrezione di Gesù ci dice che tutto quello che riguarda le nostre piccole storie individuali e quelle di chi ci è caro, ma anche la grande storia, quella in cui è così difficile spesso saper "vedere" tracce dell'agire di Dio, altro non è che il primo tempo.
Ribaltando i luoghi comuni, che troppo spesso contribuiscono a falsarne il carattere duro e polemico, uno dei discorsi di autorivelazione con cui Giovanni punteggia e sviluppa il suo vangelo come narrazione della rivelazione di Gesù al mondo e ai suoi discepoli del volto di Dio, del suo piano salvifico e della sua volontà di riconciliazione, c'impone di guardare al popolo che Dio sceglie con il coraggio della verità. Non è facile, forse, ritrovare il "significato pasquale" del lungo discorso con cui Gesù applica a sé stesso quella funzione di pastore che le Scritture d'Israele avevano riservato a Dio. Non bisogna dimenticare, però, che nei racconti pasquali del quarto vangelo l'esperienza ecclesiale svolge un ruolo decisivo. Le incertezze e le insicurezze di Pietro e del discepolo amato sulla soglia del sepolcro, la prima evangelizzazione ad opera della prima testimone del Risorto, Maria di Magdala, e la vicenda di Tommaso, per il quale l'assemblea comunitaria è il luogo per misurare la sua incredulità sono tutte icone discepolari che superano quindi il circuito delle esperienze individuali per divenire prototipi di una fede ecclesiale che deve accettare, quasi come regula fidei, anche l'ambiguità e il dubbio.

Non diversamente dal mondo, anche la Chiesa è terreno di scontro tra fedeltà e tradimento, confessione e dubbio, fede e incredulità. Diversamente dal mondo, però, la Chiesa non sceglie la propria condanna perché è, ormai, ovile di cui a prendersi cura è l'unico pastore che può preservarla e difenderla. Non soltanto dall'incredulità e dal tradimento, però, ma dai "mercenari", cioè da coloro che si fanno passare per pastori, ma che non hanno invece nessun autentico attaccamento nei confronti del gregge.
Già pochi decenni dopo la morte di Gesù, quindi, Giovanni denuncia che la comunità cristiana è minacciata, non tanto o non solo dal mondo, né dalla sua incredulità, ma dai suoi stessi "pastori", cioè da responsabili che si comportano di fatto come mercenari. È un discorso duro e insieme doloroso. Impone, però, di distinguere con chiarezza tra Gesù e altri pastori e di accettare che dentro o fuori le Chiese si sta non se i loro responsabili sono o meno meritevoli, ma solo perché Gesù, l'unico che aveva il potere di farlo, ha dato la vita per le sue pecore.

Per Giovanni, alla base di ogni critica ai responsabili delle Chiese che si comportano da mercenari c'è soltanto la cristologia. Non c'è dubbio che la storia della Chiesa, come già quella del popolo d'Israele, ha visto alternarsi alla sua guida tanti mercenari che miravano a servirsi del gregge per il proprio potere e lo hanno consegnato così al primo lupo di passaggio. Forse non deve stupire. Possibile, però, che non ci siano più "evangelisti" che, come Giovanni e tanti altri, affermino con forza e coraggio che solo l'unico pastore che ha il potere di dare la vita senza perderla può difendere non soltanto dai lupi, ma anche dai falsi pastori? Non sempre la riforma della Chiesa ha bisogno di svolte eclatanti, avviene giorno dopo giorno e nonostante in molti modi voci evangeliche vengano messe a tacere. Che si voglia o no, a guardia del gregge c'è l'unico vero pastore e, di lui, le pecore sanno riconoscere la voce.

VITA PASTORALE N. 4/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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