VI Domenica di Pasqua (B)


ANNO B – 13 maggio 2012
VI Domenica di Pasqua

At 10,25-26.34-35.44-48
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17

IL VERO AMORE
NON CONOSCE LIMITI

L'itinerario liturgico che collega la Pasqua alla Pentecoste ci porta a riconoscere che la pienezza dell'opera di Cristo culmina con il dono dello Spirito. È lui che rende reale, anche se invisibile, la sua presenza in mezzo a noi. Il brano degli Atti degli apostoli racconta la "pentecoste dei pagani" e vuole attestare la piena libertà con cui lo Spirito agisce, andando oltre ogni tipo di codificazione che dipende da noi, anche la più santa. La libertà dello Spirito è il grande dono della Pasqua e si esprime chiaramente nel momento della sua irruzione in casa di un pagano. Cornelio diviene membro della comunità cristiana perché la volontà di Dio anticipa e supera perfino i riti sacramentali, le prassi missionarie, i cammini d'iniziazione. La domanda posta da Pietro dovrebbe mandare in crisi tante nostre rigide pretese, che troppo spesso vincolano l'Evangelo alle procedure e al rubricismo: come si può negare un sacramento, il battesimo, a qualcuno che ha ricevuto lo Spirito come lo abbiamo ricevuto noi?

La libertà dello Spirito non scandisce soltanto i primi tempi della vita della Chiesa. Non segue, però, i nostri ritmi e le nostre previsioni, e mentre noi ci intristiamo considerando il nostro mondo decadente e secolarizzato, forse molti pagani ricevono invece lo Spirito e sono testimonianza vivente di quanto Gesù aveva detto: non siamo noi a sceglierlo, ma lui sceglie noi. Chi crede nello Spirito non si lamenta per il male che vede nel mondo, ma riconosce, come Pietro, che Dio spesso ci previene e lo Spirito consolatore, lo Spirito di verità si fa strada anche tra le nostre debolezze e miserie.
Il testo di Giovanni è una vera e propria costruzione a incastro in cui l'evangelista organizza i vari temi perseguendo un "effetto domino": la seconda frase riprende e sviluppa uno dei termini chiave della prima, e così via di seguito, per chiudere poi con la ripresa del tema iniziale, quello dell'amore. Una sorta di indice, in cui ogni termine potrebbe essere ulteriormente sviluppato e la successione dei temi segue poi un itinerario preciso. Potremmo dire: dall'amore ricevuto come grazia, all'amore chiesto come comando. È un brano che va capito nel suo contesto, cioè la parabola della vite e dei tralci, in cui ha la funzione di precisare che la forza vitale del Padre che, attraverso Gesù, arriva fino ai tralci è l'amore.

Si tratta di un amore che coincide con la vitalità, positiva ed efficiente, di colui che cerca il bene degli altri in modo operativo ed evita sempre ogni motivo di afflizione. Amare vuol dire uscire dal proprio egocentrismo e diventare capaci di rispettare la dignità delle persone. L'amore è forza costruttiva, collaborazione ben disposta, atteggiamento generoso che, come dimostra l'esempio di Gesù, non esclude né lo sforzo né il sacrificio. Per questo l'amore che lega Gesù ai suoi può essere presentato in stretta equivalenza all'amore che il Padre ha avuto per il Figlio. Come il Padre ha amato il Figlio così il Figlio ha amato i discepoli che gli sono stati affidati. Si tratta di una rivelazione impegnativa alla quale, forse, dovremmo ripensare seriamente.

Un amore che non è impressione emozionale, ma capacità di rimanere saldi nella fede e nell'adesione alla parola di Cristo. Non un'obbedienza cieca, però: Gesù obbedisce al Padre perché comprende l'economia della salvezza, cioè il modo in cui il Padre guarda al mondo, e la fa propria. Pure per noi obbedire a Cristo significa entrare in una sintonia personale con il Vangelo, un consenso profondo con quanto egli ha detto.
Rimanere nella sua parola dà significato alla nostra vita. Sentirci attratti dalla sua benevolenza è motivo di gioia. È questo il frutto tipico della fede cristiana, un frutto che viene da Dio ed è destinato ad essere comunicato agli altri. Amatevi come io vi ho amato: è l'ideale cui devono tendere e aspirare le comunità alle quali si rivolge il quarto vangelo.

Gesù definisce coloro che lo seguono come amici. È un'affermazione carica di benevolenza e consolazione: l'amico vero è colui che partecipa dell'intimità dell'altro, la comprende, sa apprezzarla e nei momenti di difficoltà non viene meno. Gesù ha fatto conoscere ai suoi amici ciò che gli sta a cuore, ha rivelato la volontà salvifica del Padre, non soltanto a parole, ma con i fatti, fino al dono della sua stessa vita. Ma la sua morte, più che una riparazione dovuta a Dio per i nostri peccati, è l'espressione più alta per dire che l'amore non conosce limiti.
L'amore che i discepoli hanno ricevuto come grazia deve tradursi in un comando. "Dare la vita" per il quarto evangelista non richiama anzitutto i colori lugubri del sacrificio e della sofferenza ingiusta. "Dare la vita" è quello che fa una madre, sia pure accettando che il parto porti con sé anche una misura di dolore. "Dare la vita" è quello che Dio ha fatto nella creazione, "dare la vita" è quello che Gesù ha fatto rivelando il volto del Padre. "Dare la vita" è quello che l'amico fa per l'amico non quando muore per lui o al suo posto, ma quando vive per lui e con lui. A saper guardare, forse vedremmo che tanti, forse, hanno dato la vita per noi. E ci apriremmo al rendimento di grazie. Celebrare l'eucaristia significa rendere grazie, prima ancora che per la morte, per la vita di colui che ci ha insegnato a dare la vita.

VITA PASTORALE N. 5/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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