Pentecoste (B)


ANNO B – 27 maggio 2012
Pentecoste

At 2,1-11
Gal 5,16-25
Gv 15,26-27;16,12-15

L'EFFUSIONE
DELLO SPIRITO

La liturgia della festa di Pentecoste ci ricorda che con la Pasqua di Gesù la promessa di Dio è arrivata al suo pieno compimento: la morte di Gesù non ha annullato la promessa del Regno né ha ratificato il fallimento. Gesù è morto nella certezza che il Regno che egli aveva annunciato e per il quale aveva speso la sua vita era ormai cominciato e che la presenza misericordiosa di Dio poteva essere vissuta e celebrata da ogni uomo, senza preclusione alcuna. La sua risurrezione ha sancito questa sua certezza ed egli è definitivamente presente in mezzo ai suoi attraverso il dono del suo Spirito. Celebrare l'effusione dello Spirito significa portare a maturazione la fede pasquale, riconoscendo che ormai una novità di vita è davvero incominciata per tutti.
L'evangelista Giovanni dà un risalto particolare al momento in cui Gesù, prima di consegnarsi al tradimento e alla morte, si congeda dai suoi discepoli affidando loro il suo testamento spirituale. Egli rivela loro il significato che ha dato alla sua morte, ma anche insegna loro cosa comporta vivere la sua assenza come presenza di colui che vive in mezzo a loro in modo diverso. È una grande catechesi sulla vita nello Spirito in cui temi diversi s'intrecciano in un susseguirsi d'indicazioni ed emozioni, avvertimenti ed esortazioni che seguono un unico filo: vivere con Gesù anche senza poteri o più vedere e toccare; sperimentare la forza dello Spirito ed essere così introdotti nella pienezza della vita, nella vita che non muore.

Non sono parole facili, eppure sono parole comprensibili, almeno per coloro che conoscono il linguaggio della fede. La comunità dei discepoli, che dopo Pasqua avranno il coraggio e lo slancio di vivere ciò che Gesù aveva predicato, di superare il trauma della sua morte e di presentarsi come testimoni della sua presenza, attesta al mondo la risurrezione, è cioè testimone del fatto che Gesù è vivo. C'è qualcosa di straordinario in questa investitura. I discepoli non sono invitati a conservare una memoria. Gesù non chiede loro di dedicare la propria vita al culto di un fondatore morto. Li rassicura che la sua risurrezione provoca pure per loro un nuovo inizio. Vivranno nel mondo, vivranno la loro vita nella piena libertà. Sarà però una vita "consolata", cioè accompagnata e difesa, animata e sostenuta dallo stesso Spirito che ha condotto Gesù lungo tutta la sua vita a rendere testimonianza del Padre.
Solo chi è stato con lui fin dall'inizio può ricevere l'eredità di Gesù e farla propria, mentre" gli altri" , quelli che sono fuori, non possono capire perché non hanno vissuto l'amicizia e l'intimità con lui. La testimonianza discepolare non è per tutti, come non sono per tutti le parole sullo Spirito. C'è una separazione da accettare, che non significa né comporta privilegi di sorta. C'è chi ha imparato una lingua e chi no, c'è chi è nelle condizioni di recepire e chi no, c'è chi ha fatto il cammino fin dal principio e chi no. La testimonianza si fonda su un rapporto interiore e strettamente personale, attraverso cui l'invisibile viene percepito dal cuore fino a divenire visione. Può capirlo solo chi è stato amato e ha amato, solo chi ha vissuto cioè una relazione profonda di alterità.

La vita nello Spirito nessuno può darsela da solo, né può darla a un altro, perché nasce da un rapporto di reciprocità e di predilezione. Possiamo lecitamente domandarci se quell'in principio in cui questo rapporto getta le sue radici è soltanto la vita pubblica di Gesù e rimanda perciò alla chiamata che egli ha rivolto ad alcuni perché partecipassero alla sua missione terrena, o non è piuttosto quell'in principio di Dio, della presenza di Gesù nel seno del Padre, quell'intimità tra Padre e Figlio che Gesù rivela lungo tutto il quarto vangelo. Essere con Gesù fin dal principio non è allora un privilegio storico, ma una condizione spirituale a cui alcuni sono chiamati e di cui sono chiamati a rendere testimonianza.

Per Giovanni non si tratta né di visioni mistiche né di spiritualismi affettivi. Si tratta della capacità di penetrare il mistero che collega Gesù a Dio non soltanto a partire dal momento della risurrezione, ma fin dal principio di tutte le cose. Non è un concetto, una formula di fede: è vedere nella storia, in tutta la storia del mondo, che Dio ha da sempre e per sempre amato il mondo; è vedere che Gesù, il suo ministero, ma anche la sua morte e risurrezione, non sono altro che rivelazioni di questo amore. Troppi amano predicare un Dio che disprezza e aborrisce il mondo che egli stesso ha creato. Partecipare a quell'in principio tra Padre e Figlio, in cui il Figlio ha appreso dal seno del Padre che mai il mondo potrà essere condannato, è il mistero che lega i discepoli a Gesù da sempre e per sempre.
In quel giorno, a Gerusalemme, i discepoli di Gesù hanno cominciato a camminare nello Spirito. Gli altri, quelli di fuori, non hanno visto i prodigi straordinari che accompagnavano l'effusione dello Spirito, ma hanno ascoltato una parola capace di raggiungerli nella propria lingua. E passano dal turbamento allo stupore e alla meraviglia, perché è una parola capace di raccontare le opere di Dio. Come ha scritto il grande teologo Karl Rahner: «Il futuro chiederà alla Chiesa di testimoniare la vicinanza del mistero ineffabile che chiamiamo Dio». È questa la lingua che chiunque può capire.

VITA PASTORALE N. 4/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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