Tutti i Santi

ANNO B – 1° novembre 2012
Tutti i Santi

Ap 7,2-4.9-14
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12a
LA SANTITÀ È UNA
VOCAZIONE DI TUTTI

Le letture che introducono al significato teologico della memoria liturgica di Tutti i Santi si aprono tutte e tre, significativamente. con il verbo "vedere". Richiamano cosi il vedere profetico del veggente dell'Apocalisse, il vedere pacato dell'intelligenza della fede richiesto dalla catechesi apostolica, il vedere messianico di Gesù. Forse, la festa di Tutti i Santi ci chiede proprio di imparare a "vedere". Si tratta di vedere che la storia degli uomini contiene in sé la promessa della santità di Dio, ne è immagine e somiglianza, ne riflette la luce ma, al contempo, ne attende, non senza fatica e sofferenza, il compimento.
Non è difficile, forse, credere alla "santità" di alcune persone se si pensa a virtù eroiche o a qualità fuori dal comune. Anche da un punto di vista del tutto laico è ben possibile riconoscere che alcuni hanno più forza di volontà di altri, più generosità e coraggio di altri, sono più capaci di accettare prove e sofferenze. Di questi "santi" sono pieni i libri di storia, non solo le cappelle delle nostre chiese. La festa di Tutti i Santi ci invita però ad andare ben oltre, perché collega la santità non ai pochi ma alle moltitudini, non agli eroi ma alle folle, non solo a un gruppo di eletti ma a tutti gli uomini e le donne che Dio ama.

Questa "santità" delle moltitudini è, in fondo, scandalosa. Eppure, dal giorno del patto con Noè, l'atteggiamento di Dio nei confronti del mondo, è di benedizione e di alleanza, di compiacimento e di benevolenza. Verso tutto e verso tutti. Ci sono, è vero, coloro che nel corso della vita sono stati chiamati ad appartenere in modo consapevole al popolo dell'elezione. Più spesso per caso, però, che non per scelta. Certamente non per merito: nessuno, mai ha deciso di nascere in una delle dodici tribù d'Israele o nel popolo della prima alleanza o nelle Chiese cristiane. Certo, si passa dal caso alla fedeltà, dalla sorte all'appartenenza consapevole solo con una scelta libera, ma sempre una scelta che significa accoglienza di una santità donata in precedenza.
Per quanto più contenuto in Italia che non in altri Paesi mitteleuropei, il caso degli "sbattezzamenti" non dovrebbe essere liquidato troppo facilmente perché fa risaltare il vincolo tra appartenenza religiosa e libera scelta. È vero infatti che la santità non è un "lusso", ma appartiene saldamente alla fede battesimale, ma è anche vero che oggi fede battesimale e appartenenza ecclesiale sono altrettanto saldamente legate alla libera scelta individuale.

Gesù pronuncia le beatitudini guardando la folla. Nessuno passa l'esame ad personam, nessuno deve presentarsi ostentando i propri meriti. Gesù sa che perfino tra la folla, che non lo segue perché ha capito il suo messaggio, ma lo insegue perché ha bisogno di salvezza, ci sono poveri di spirito, puri di cuore, affamati di giustizia e insegna ai suoi discepoli a saperli vedere e a riconoscerli come benedetti da Dio. Essere santi non significa essere sazi di salvezza, ma affamati di salvezza. Per questo le beatitudini sono tutte al futuro.
Strane forme di spiritualità e di ascesi hanno fatto della santità una conquista, l'hanno paragonata a una montagna da scalare per arrivare in cima. Per Gesù, invece, la santità è il dono messianico che solo chi è povero, mite e puro di cuore, chi fa della misericordia, della giustizia e della pace la sua bandiera e chi ha lacrime da farsi asciugare può essere in grado di ricevere. Solo quelli che prendono la vita, tutta, come anticipo del Regno riceveranno in dono di entrare nel regno dei cieli.
Il veggente dell'Apocalisse vede invece l'esito finale di quella storia in cui sulla totalità di quelli che vengono dalle tribù d'Israele Dio porrà il suo sigillo definitivo, perché egli non rinnega nulla di quello che ha fatto, ma lo porta a compimento. Una storia di elezione, certo, ma non di esclusione, una storia d'intimità con un popolo ma, insieme, di beneplacito per tutti i popoli. Il sangue dell'Agnello non è stato versato per alcuni, ma per la moltitudine. La sovranità di Dio accoglie sotto la sua potenza tutti coloro che con quel sangue hanno reso candide le loro vesti. La forza dell'immagine consola e. insieme, inquieta.

La domanda s'impone: che senso possono avere oggi, nell'epoca disincantata della scienza e degli effetti speciali, immagini che hanno nutrito d'illusioni e di paure generazioni e generazioni di credenti? Non ci appaiono forse puerili, in un mondo che, oscillando ormai senza soluzione di continuità tra il reale e il virtuale, non ha bisogno che la fede religiosa spieghi il suo repertorio di fantasie ingannevoli?
Nel suo irriverente ritratto di una vita dopo la morte, da sempre immaginata e oggi derisa, David Eagleman (Nella vita di là, Mondadori 2012), docente di neuroscienze conosciuto in tutto il mondo, si muove con sottile ironia tra la confutazione dell'immaginario convenzionale, fatto di angeli e di nuvole, e la questione di un "oltre la morte" che ci accompagna e c'inquieta. Forse, in un tempo in cui lo spazio dell'immaginario e del fantastico ha perso la sua connotazione religiosa, la sobrietà della catechesi giovannea ci offre una sponda per restituire la santità all'ordine del reale e del possibile: sappiamo ciò che siamo realmente, figli di Dio, non ciò che saremo. La speranza, poi, purifica anche la nostra fantasia.

VITA PASTORALE N. 9/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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