XVI Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 22 luglio 2012
XVI Domenica del Tempo ordinario

Ger 23,1-6
Ef 2,13-18
Mc 6,30-34

COME PECORE
SENZA PASTORE

Come ci aveva fatto assistere all'invio dei discepoli in missione, così Marco ci presenta anche il loro rientro. Coloro che Gesù aveva mandato non vivono soltanto di annuncio e di guarigioni. C'è il momento del rientro, il tempo della solitudine e del riposo. C'è soprattutto il tempo in cui non si vive più confusi con il mondo a cui si è stati inviati. La pagina evangelica di Marco ci invita allora a stabilire una significativa continuità tra il momento dell'invio e quello del ritorno, tra l'attenzione alla folla e la separazione dalla folla. Continuità che non significa, però, uniformità. II tempo del lavoro non è quello del riposo e nessuno dei due è il tempo religioso, quello che Dio chiede per sé. La tradizione ebraico-cristiana ha dato un contributo significativo a definire la scansione del tempo qualificandola in modo diversificato.
Apprendere ad attraversare la soglia tra un tempo e l'altro: la grande sfida che aspetta i credenti di tutte le religioni che vivono in società laiche e pluraliste sta nel vivere ciò che ci accomuna a tutti gli altri nel lavoro e nel riposo rispettandone le regole e, al contempo, nel saper rispettare e chiedere di veder rispettato il diritto al tempo di Dio. Su questo, più che sull'affermazione di ferrei principi o l'elaborazione di grandi teorie, si gioca l' identità dei credenti e delle Chiese.

Al riguardo, la pagina evangelica di Marco ci raggiunge come monito ma, al contempo, anche come consolazione. Monito, perché la tentazione di vivere la missione senza mantenere il rapporto con Gesù è permanente. Per tutte le Chiese e sempre. La tentazione di trasformare la missione in un processo di colonizzazione ideologica e in un'organizzazione complessa di pratiche e di attività accompagna la vita delle Chiese da sempre. Fare di Cristo un'ideologia religiosa e un'operazione politica è del tutto possibile. Tornare invece sempre e comunque a Gesù, a quell'esperienza storica che i suoi discepoli hanno fatto con lui e che si traduce per noi in memoria creativa, significa riconoscere che l'unico pastore è soltanto lui, Gesù. È quindi quanto mai significativo che coloro che Gesù ha inviato vengano invitati, dopo aver raccontato quanto hanno detto e insegnato, non a discutere o a confrontarsi, ma a ritirarsi in disparte e a riposare in un luogo solitario.
Solo se accetta di prendere di volta in volta le distanze da ciò che compie, solo se accetta di farsi interpellare sempre e continuamente dalla folla che va in cerca di parole di giustizia e di verità, la Chiesa è realmente "apostolica". Solo in obbedienza a Gesù e secondo le misure da lui stabilite può portare avanti la sua missione. Non si tratta di inframezzare qualche momento di preghiera o qualche giornata di ritiro al ritmo di ciò che si fa. La "folla" che cerca Dio ha bisogno d'essere accostata e trattata con uno "stile" fatto di attenzione e rispetto. E chiede, soprattutto, che non le venga negata una parola di consolazione e d'insegnamento. Solo "in disparte" la Chiesa può arrivare a discernere cosa significa obbedire a una missione che non può né deve essere confusa con nessun tipo di sopraffazione, ma neppure ridotta a una programmazione aziendale. Il brano di Geremia ci ricorda d'altro canto che, da sempre, il problema che segna in modo tragico la storia del popolo che Dio ha scelto di condurre con il suo bastone e il suo vincastro di Pastore è il problema dei pastori, di coloro cioè che dovrebbero raccogliere il gregge e prendersene cura e che invece lo disperdono e lo fanno perire. Solo a un profeta poteva essere affidato un monito così drammatico, perché solo un profeta sa pronunciare, accanto a parole d'invettiva, anche parole di consolazione.

Il dramma di pastori che, invece di pascere il popolo che è stato loro affidato, lo disperdono e l'allontanano è stato ed è sempre possibile e a volte ha effetti ben più tragici di qualsiasi processo di secolarizzazione. A molte pecore che si sono sentite scacciate dovremmo riconoscere di nuovo il diritto di prendere la parola nell'assemblea ecclesiale, molte altre di cui non ci siamo preoccupati, perché presi dalla difesa di ferrei principi e di ancor più ferrei privilegi, dovremmo risarcirle con parole di consolazione e gesti di giustizia. Nelle intenzioni di Giovanni XXIII, il Vaticano II doveva essere un concilio pastorale e molti hanno pensato che una Chiesa pastorale fosse meno militante e meno trionfante di quanto debba essere. Senza capire che il volto arcigno della Chiesa la rende sale divenuto scipito.

Essere capaci, come Gesù, di commozione: non dovrebbe essere questa la Chiesa degli apostoli? E non è forse questa la Chiesa di cui gli uomini e le donne di ogni tempo hanno bisogno per essere raggiunti dalla misericordia di Dio? Il Dio delle ideologie che non sa stare "in disparte" né chiede ai suoi di mettersi a volte in disparte, che non sa lasciarsi interpellare fino alla commozione dall'umanità dolente si impone ricorrentemente nella cronaca di ogni tempo e sotto ogni bandiera o dietro ogni altare. Solo se non pretendono di interpellare, ma si lasciano interpellare dalla folla e dalle sue attese, le Chiese sono vicine a Gesù che ha avuto compassione delle sue pecore ormai disperse e senza pastore, e il Dio che annunciamo sarà finalmente chiamato Signore-nostra-giustizia.

VITA PASTORALE N. 6/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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