XXIV Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 16 settembre 2012
XXIV Domenica del Tempo ordinario

Is 50,5-9a
Gc 2,14-18
Mc 8,27-35

LA FEDE NEL MESSIA
DEBOLE E SOFFERENTE

È Gesù stesso a porre ai suoi discepoli la domanda cruciale per la fede. Senza di essa, il racconto della vita e dell'attività di Gesù potrebbe essere una storia qualsiasi, esaltante o commovente, più o meno leggendaria come tante altre storie di personaggi famosi di tutti i tempi. Non è, invece, un romanzo a sfondo religioso o agiografico. È una storia scritta come "Vangelo", buona notizia di salvezza. Il suo significato sta tutto nella domanda cruciale: le risposte ad essa segnano un confine netto tra "la gente" e "i discepoli", tra "gli altri" e "voi" e la Chiesa diviene il luogo in cui questa domanda risuona, forte e potente, diretta e inquietante. "Voi" e "io".
Gesù non appaga i nostri bisogni religiosi, non è interscambiabile con uno dei tanti santi o profeti. E anche Pietro non è uno dei tanti discepoli possibili, ma è il discepolo in quanto tale, è la comunità discepolare, è il paradigma della fede discepolare. Al tempo in cui Marco scrive, Pietro è già entrato nella tradizione come colui intorno alla cui memoria ha preso forma e consistenza la fede cristologica. Il ruolo di apripista che egli deve aver giocato nel gruppo dei discepoli storici ha ormai acquisito un forte valore simbolico. Quando proclama profeticamente la messianicità, Pietro è "il" discepolo.

Ma la sua confessione va ben oltre la formula: "Tu sei il Messia", perché comprende in sé anche la sua reazione violenta di fronte all'ipotesi che il Messia sia destinato alla sofferenza e, insieme con lui, lo siano anche i suoi discepoli. Chi si oppone a Gesù non sono più i nemici di sempre, scribi e farisei, ma il discepolo per eccellenza, Pietro. Confessare che Gesù è il Messia significa attestare che il regno di Dio è venuto, significa annunciare che la giustizia di Dio ha vinto: com'è possibile combinare questo con un rifiuto che appare più forte di Dio stesso e con il carico di sofferenza e di dolore che continua a pesare sugli uomini?
La fede della Chiesa, dunque, si gioca tutta in questo faccia a faccia tra Gesù e il discepolo che impone di non accontentarsi di una risposta chiara, ma troppo rapida, ben confezionata, ma troppo sicura. Riconoscere il Messia chiede altro. Il confronto decisivo tra Gesù e i discepoli, quello che trasforma da "folla" in "voi", passa infatti attraverso l'accettazione della debolezza del Messia. Qualsiasi fede, religiosa o no, non accetta di essere debole perché teme di essere spazzata via rapidamente dalla storia. Chi ha potuto vedere la splendida mostra allestita nei Musei capitolini di Roma dall'Archivio segreto vaticano ha toccato con mano, in un lungo viaggio a ritroso nella memoria, che anche la fede in Gesù di Nazaret, se non avesse trovato il sostegno della grande potenza imperiale dell'età antica, l'impero romano, non sarebbe stata, forse, quella che è stata e che è. La storia, d'altra parte, non si fa né con i sé, né con i forse.

Ciò che attrae in una fede religiosa è, spesso, la sua forza, la sua potenza, non la sua debolezza. Una potenza magica o ideologica, politica o economica. La fedeltà dei discepoli di Gesù è messa invece alla prova proprio a partire dalla debolezza e Pietro, il discepolo, cade rovinosamente: mai Gesù ha chiamato i suoi oppositori in modo così duro, "satana". Il discepolo non vuole la debolezza del suo Dio. Può essere disposto, forse, a proclamare la propria debolezza, oppure anche a teorizzare l'ineluttabilità del dolore e della sofferenza umani, ma Gesù chiede molto di più perché pretende che il discepolo riconosca che Dio stesso s'è fatto obbediente alla debolezza e alla sofferenza.
La sapienza di Dio è un'altra. Egli non ha mai voluto sopprimere il male, ma ha preferito trarre il bene anche dal male. Gesù, da questo punto di vista, non inventa niente né pretende nulla di nuovo perché tutta la rivelazione biblica ci parla di questa sapienza. La lotta, lo sforzo, la sofferenza sono cammini di trasfigurazione che anche il Messia ha percorso. Come già il servo del Signore del libro di Isaia che non oppone resistenza e non si tira indietro, Gesù non si sottrae alla logica della fatica e della sofferenza. Si tratta di una dimensione quanto mai delicata dell'esperienza di fede e sappiamo molto bene i danni di una predicazione cristiana che ha fatto un insano ricorso all'esaltazione della sofferenza.

Casualmente, ma quanto mai opportunamente, le parole dell'apostolo Giacomo fanno da correttivo al rischio di una "fede morta", perché tumulata in una formula astratta o perché paralizzata dall'ineluttabilità del dolore. Accettare che, se perfino il Cristo doveva soffrire, il dolore sia parte inestricabile della vita degli uomini non significa chiudere il proprio cuore e non farsi carico della sofferenza di coloro che ci stanno accanto. Tutta la lettera di Giacomo attesta che, come per Pietro il problema radicale era accettare la sofferenza del Messia, così il problema serio della comunità cristiana è stato fin dall'inizio farsi carico della sofferenza dei fratelli poveri e indigenti. In questo tempo di crisi è quanto mai necessario, forse, che la predicazione cristiana si faccia esigente al riguardo. Cresce, infatti, insieme al numero dei poveri, anche l'egoismo. «E voi chi dite che io sia»: non basta rispondere: il Cristo. Bisogna arrivare a dire: «il Cristo crocifisso». Con tutto ciò che questo comporta.

VITA PASTORALE N. 7/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


torna su
torna all'indice
home