Gesù Cristo, Re dell'universo
XXXIV Dom. del T.O. (B)

ANNO B - 25 novembre 2012
Gesù Cristo, Re dell'universo - XXXIV Dom. del T.O.

Dn 7,13-14
Ap 1,5-8
Gv 18,33b-37
IL REGNO DI DIO
E IL POTERE UMANO

Per la Chiesa la monarchia ha rappresentato per molto tempo una forma di organizzazione del potere particolarmente favorevole, anche quando i rapporti tra il Papa e i diversi sovrani hanno comportato lotte e guerre di cui, comunque, ha pagato il prezzo sempre e soprattutto la povera gente. Dal punto di vista teorico, infatti, l'idea di monarchia garantiva alla Chiesa di salvaguardare l'ideale di una società strutturata, in cui anche l'orientamento religioso era, di fatto, "di regime". I re erano tali "per grazia di Dio" e l'ideale di una "cristianità" pareva la forma più adatta per la conservazione dei valori tradizionali dell'Europa e per dare consistenza e perseveranza alla fede. L'istituzione della festa di Cristo Re da parte di Pio XI risente fortemente del fatto che, all'inizio del secolo XX, la decadenza dei regimi monarchici europei era diventata per la Chiesa motivo di forte preoccupazione.

Ricordare la genesi della festa di Cristo Re aiuta a entrare nel cuore delle letture scelte per la celebrazione eucaristica e, soprattutto, a cogliere la dimensione pienamente evangelica della "regalità di Dio". Esse ribaltano infatti la prospettiva: non confermano affatto fiducia a nessun tipo di potere terreno. Il Dio di Gesù non ha bisogno di appoggiarsi né a re né a principi, per affermare la sua sovranità. Interpellano perciò i credenti, ma soprattutto le autorità delle Chiese, a purificare il loro rapporto con i poteri di questo mondo. Solo Dio, infatti, è in grado di esercitare il suo potere tra incarnazione e trascendenza.
La forza del racconto giovanneo sta nel chiamare in scena tutti i protagonisti di una storia che essi credono gli appartenga, ma il cui vero significato e valore sta invece solo nelle mani di Dio. Sullo sfondo ci sono i Giudei, l'intero popolo della promessa che aspettava il suo re, ma in primo piano ci sono alcuni di loro, quelli che avevano in mano il potere religioso, "i capi dei sacerdoti" e la gente che va loro dietro: c'è poi Pilato, l'ambiguo per ruolo prima ancora che per carattere, colui per il quale la religiosità, se c'è, va sottomessa alla ragione politica e alla ragione di Stato, colui per il quale c'è avanzamento nella scala del potere solo se c'è capacità di dominare i conflitti con tutte le anni a disposizione: c'è infine Gesù, protagonista di una vicenda umana la cui regia e la cui sorte è consegnata nelle mani degli oppositori.

Di fronte a Pilato Gesù si presenta non come un povero accusato davanti al governatore romano bensì come un personaggio che mantiene tutta la sua dignità e può dialogare con l'autorità costituita e rendere palese il significato autentico della sua missione. Il confronto tra i due poteri, quello terreno e quello trascendente si gioca all'interno di una attestazione che solo l'incarnazione può fornire: solo a Dio è possibile una sovranità nella storia che la assuma e la compia, la valorizzi e la celebri nel pieno rispetto di tutto e di tutti. Gesù non può più parlare al popolo di Israele da quando i suoi accusatori, le autorità di Gerusalemme, avevano cominciato a perseguirlo proprio a causa della sua predicazione del regno di Dio. L'accusa è falsa perché gli attribuiscono di volersi fare re su Israele, in contrasto con Cesare.

Pilato domanda e Gesù risponde: per l'evangelista Giovanni, che non vi ha mai fatto esplicito riferimento nel corso del suo vangelo, è questa l'occasione propizia per presentare la predicazione di Gesù sul regno di Dio, davanti a un pagano che, per quanto con una certa dose di scetticismo, accoglie le parole di Gesù e cerca di difenderlo. Forse, proprio perché non è affetto dall'integralismo religioso, il pagano può capire meglio che Gesù non parla di regni di questo mondo. Il dialogo tra il servo di un re di questo mondo e colui che annuncia la sovranità di Dio si muove così a un livello teologico, non politico e si conclude con la domanda "Che cos' è la verità?", che Pilato lascia volutamente aperta. Una domanda grandiosa, che riassume tutte le domande che nascono dall'esperienza umana e dal pensiero umano e che per i discepoli di Gesù ha una risposta evidente perché, lo aveva detto lui stesso, "Io sono la via, la verità, la vita".
Pilato si muove nell' ordine dei fatti. Gesù sposta il discorso sul piano dei significati. Pilato non può capire, perché non può essere "dalla verità". Non certo perché è pagano, se anche alcuni Giudei non sono stati "dalla verità", ma perché non può accettare che esista una regalità al di fuori della competizione tra i poteri né un potere più grande di quello a cui è asservito.

Concludere l'anno liturgico con la celebrazione della festa di Cristo Re significa ricordare che il significato del tempo della storia è cristologico: la scansione del tempo cristiano, diversa da quella del tempo civile, è data dagli eventi che riguardano la vita, la morte e la risurrezione di Gesù di Nazaret, il Cristo di Dio, il Figlio diletto di Dio. Ciò non significa, però, che il tempo della storia sia ormai sottratto all'ambiguità. È stato così nel tempo del suo ministero terreno, è stato così nel momento della sua condanna, è stato così nei primi decenni della diffusione dell'annuncio cristiano. Non può essere che così anche per noi. In fondo, celebrare Gesù come re ci ricorda quanto la fede in lui è sempre esposta al rischio di adulterazione e di contraffazione.

VITA PASTORALE N. 9/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)

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