La diaconia: una bussola nel mare digitale



Il diaconato in Italia n° 173
(marzo/aprile 2012)

APPROFONDIMENTO


La diaconia: una bussola nel mare digitale
di Giovanni Chifari


In un'era digitale che favorisce percorsi e processi sempre più rapidi, veloci e mutevoli che sembrano sempre più estendersi a stili e prassi di vita, qualcuno potrebbe anche turbarsi, trovandosi di fronte a qualcosa di stabile e permanente, dalla vita matrimoniale ad un sacerdozio ben vissuto fino ad arrivare a coloro che permanenti lo sono per identità e anche profezia, come i diaconi. Non un gradino in meno o sotto, non tali per privazione, ma permanenti come segno di una diaconia della Chiesa e di una conformazione a Cristo che anche in quest'era digitale e tecnologizzata, liquida e complessa, può dire tanto all'uomo assorto e distratto del nostro tempo.

Fra ieri e oggi
Segno di contraddizione, i diaconi permanenti affermano che il loro stesso stato e la loro diaconia nella Chiesa, non è uno di quegli imprevisti del sistema operativo di un computer, non è una pagina in default che non risponde, non è ferialità sterile e ripetitiva di servizi ma espressione creativa dell'opera dello Spirito Santo che guida la sua Chiesa. Che fare allora? Escludere, allontanare o demonizzare ciò, che per via culturale o per stile o per tendenza non ci comprende, oppure, imparare a capire e discernere?
Si può annunciare il Vangelo e servire i fratelli oggi accogliendo e valorizzando l'odierna cultura digitale? Annunciare senza essere digitalizzati e servire senza anarchia, senza disperdersi nei labirinti senza centro dell'odierna cultura? Che cosa può testimoniare il diacono permanente? Quando mai, infatti, la cultura è stata un reale ostacolo per il servizio e per l'annuncio? Notevoli potenzialità, maggiori risorse ed opportunità ma anche un più rigoroso discernimento ed orientamento sono alcune delle cose che ci suggerisce quest'epoca.
Un tempo l'apostolo Paolo, navigava per le rotte del Mediterraneo orientale, e solo con grande fatica e insicurezza, poteva trasmettere quel Vangelo di Cristo, che anche lui aveva ricevuto, e che aveva imparato a discernere secondo le Scritture. Servizio ed annuncio che coinvolgeva fortemente il suo stesso corpo, esponendolo al logorio e alle intemperie, alla sete e alla fame, al rischio e al pericolo, in una comunicazione lenta ma efficace, incerta ma capace di generare desiderio ed attesa. Oggi è diverso lo scenario. Non manca il logorio fisico, forse più psicologico, tuttavia per quanto riguarda la comunicazione basterebbe un click, e dopo pochi secondi si aprirebbe una pagina capace di generare una molteplicità di connessioni. Navigando, ma questa volta con la fantasia, possiamo provare ad immaginare che cosa sarebbe cambiato se Paolo avesse potuto mandare una semplice e-mail alla comunità di Corinto o di Efeso, di Roma o di Tessalonica. Il contenuto del messaggio probabilmente sarebbe stato lo stesso di quello presente nelle sue epistole, tuttavia avrebbe forse potuto pensare di rimandare qualche viaggio, che si poteva spostare qualche data, che forse non sempre era necessario andare, incontrare quei volti e quelle comunità. Ci sarebbe stata una comunicazione più veloce ma un impoverimento della relazione fatta di mediazione, anche fisica, e d'incontro.
Ma pensiamo anche al valore di un archivio o database che avrebbe consentito di non disperdere quei testi e quelle fonti, sorgente di giovamento e consolazione per le comunità, alle quali tanti avrebbero potuto accedere più rapidamente.
In un passaggio di una lettera del 25 giugno del 1992, rivolta ai presbiteri, il Vescovo don Tonino Bello affermava: «Se non useremo tutta l'intelligenza tattica richiesta oggi dalle leggi di comunicazione di massa, il Signore potrà giudicarci anche per questa occasione perduta». Il sottile e labile confine fra opportunità e limite è allora lasciato ad una disponibilità antropologica di base e ad un sano discernimento spirituale. Le odierne possibilità che la cultura digitale oggi ci offre dovrebbero allora essere interpretate in ordine all'evangelizzazione e al servizio secondo un valore propedeutico alla conversione e poi alla fede. Devono poter preparare all'incontro con Cristo, con il suo corpo, nella Parola, nell'Eucarestia, nei sacramenti e nei fratelli.

Dai recenti messaggi del Papa
Un rapido monitoraggio dei recenti messaggi di Benedetto XVI per le giornate mondiali della comunicazione sociale ci consente di rilevare una sostanziale apertura e un accoglimento condizionato delle potenzialità tecnologiche di questa cultura digitale. Aspetti trasversali e costanti ai vari messaggi sono: la centralità della questione antropologica, la riflessione sul senso della comunicazione e l'indole di servizio. La consapevolezza di essere immersi in una cultura digitale e l'osservazione del mutato quadro antropologico è intesa come occasione per servire la verità, riaffermando la dignità dell'uomo. Già Giovanni Paolo II rilevava che il mutamento antropologico che sembra poter «ridisegnare il volto della comunicazione», è realtà che può divenire «occasione per ridisegnarlo, per rendere meglio visibili i lineamenti essenziali e irrinunciabili della persona umana» (RS, n. 10). I messaggi pontifici mostrano di aver accolto le tendenze delineate dai sociologi: «Non cambia solo il modo di comunicazione in se stessa» (45 Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali). Comunicazione e rete sociale, spostamento su una piazza virtuale di fronte alla quale si chiede il Pontefice: «Ma chi è il mio prossimo in questo nuovo mondo?». Cambiamento epocale e rivoluzione digitale che suscita entusiasmo ma apre interrogativi di senso e la ricerca di un nuovo centro che possa orientare un servizio che è individuato nel «bene integrale della persona» (ib.). Per servire tuttavia si dovrà poter discernere quel retto cammino della comunicazione, quel suo scaturire dal silenzio, come lascia intendere il recente messaggio: Silenzio e Parola.

Una questione antropologica
Da un punto di vista antropologico, l'era digitale, lascia intravedere e pubblicamente osservare quei bisogni umani di base, quelle dimensioni prevalenti comuni ad ogni uomo, come il desiderio di comunicare, il bisogno di relazione, la necessità di comprendersi, conoscersi e capirsi nel dialogo con l'altro. Ma siamo certi che l'approccio cibernetico o il cammino internautico riescano davvero ad estinguere questa sete?
Gli antropologi e i sociologi ci descrivono una società liquida, per un uomo incerto e frammentato e una comunicazione veloce, mutevole, instabile, impaziente. Da più parti appare pronunciata la sentenza: la società è cambiata così come la comunicazione e forse anche l'uomo. Sul piano antropologico e psicologico non rimane che cercare di decifrare e comprendere il percorso genetico di tale processo per poter risalire alle sorgenti dei propri condizionamenti, per riappropriarsi della propria libertà e di un'autonomia capace di coniugare maturità e responsabilità, possibilità e opportunità, diaconia e missione.
Gli studiosi ci segnalano che il mutamento in atto sta determinando il cambiamento degli stessi processi cognitivi della nostra mente, influenzando stili e comportamenti di vita. Per i nativi digitali ciò è ormai un processo ben avviato. Basta osservare da come bambini di quattro anni sanno orientarsi intuitivamente nell'uso di un I-phone. Prendere atto del cambiamento potrà aiutarci a discernere questo tempo. Ma guardarsi mentre si sta guardando o capirsi mentre si sta capendo non è un'operazione che può essere lasciata alla sola ed esclusiva intuizione dell'intelligenza o alla indefettibile volontà del soggetto ma avviene mediante una lenta e graduale oggettivazione di un dono di grazia che si è ricevuto.
Solo così quella disponibilità a cercare e a capire potrà trovare un senso. Si può, infatti, descrivere e non osservare, passare in rassegna e non analizzare, faticare e render tutto vano. Con queste premesse si potrà procedere assumendo l'umiltà e la scrupolosità di chi cerca di osservare e osservarsi, analizzare e analizzarsi, avanzando come chi intende redigere dei racconti sul campo, o come amano dire gli antropologo statunitensi stilando dei report field. Prospettiva che mi sembra poter essere utile anche in un campo diaconale. Annunciare e servire, evangelizzare e diaconizzare, richiede conoscenza e inculturazione, discernimento e orientamento, stabilità e sicurezza. Ciò vale in particolar modo verso le nuove generazioni, verso le quali i diaconi permanenti attraverso il loro impegno in società, mediante la loro testimonianza quotidiana e feriale, potrebbero essere mediatori efficaci per un rinnovato incontro con Cristo.

Diaconia verso i nativi digitali
Le nuove generazioni, in quest'epoca digitale, non riescono a nascondere le dimensioni del cambiamento, il mutamento degli scenari e la variabilità delle prospettive. Sarà forse utile ripartire da esse per cercare di rispondere a domande non più rimandabili, e per tentare di delineare un ambito di evangelizzazione e di servizio che anche per i diaconi permanenti non andrebbe trascurato.
Dai profili dei diaconi ricavati dai siti delle diverse diocesi italiane, risulta che un certo numero di essi si dedica prevalentemente all'insegnamento, alcuni nelle scuole statali, altri nelle scuole di teologia di base, e la grande maggioranza svolge un servizio nell'ambito della catechesi e della pastorale diocesana e parrocchiale. Questo scenario rende cruciali alcuni quesiti: Come annunciare il vangelo di Cristo in un tempo percepito come incerto e instabile o anche ininfluente, e in uno spazio confluito in un cyberspazio?
Come essere testimoni di Colui che si è fatto prossimità verso gli uomini in un tempo nel quale la relazione è espressa in un link? C'è posto per la mediazione in una società liquida e complessa che taglia ponti e radici, dove tutto è ritenuto vicino e raggiungibile poiché è virtuale? Come poter essere allora, per i nostri diaconi, prolungamento dell'umanità di Cristo nel lui ed ora della storia? Come essere servi autentici e veri testimoni?
Le prime note attinte dal campo o sul campo, circa i nostri giovani, descrivono una situazione di non assopimento di quelle dimensioni antropologiche di base comuni ad ogni uomo, delineando semmai una condizione di latenza. Ascolto, ricerca e desiderio di conoscere, attesa, speranza e futuro, sono come in standby o in download (caricamento, come il preludio che anticipa vari giochi della play station). In un'era dove il legame è rapido, mutevole e veloce, ed è espresso in un link, attesa e desiderio sono tate da ogni loro valenza educativa e terapeutica.
Più difficilmente oggi si educa al desiderio e al rispetto dei tempi. L'attesa è divenuta insostenibile, e risulta efficacemente fotografata dalle dinamiche che si verificano nel corso di una connessione internautica, quando, se non si apre la pagina, si ricerca subito un browser più veloce o si cambia collegamento. Allo stesso modo il desiderio è ritenuto vicino, a portata di mano o di click, dunque perché spendersi per esso. Il panorama che delinea il contesto vitale di questi giovani nativi digitali si arricchisce di tinte apparentemente forti recependo le narrazioni a volte enfatiche delle vicissitudini affettive e relazionali che essi riportano. Spicca un chiaro e netto bisogno di scambio e di condivisione, un'ancestrale necessità di dialogo e di incontro ma anche di abbraccio e di presenza. Fin qui tutto bene, se non intervenissero quei nuovi mediatori di tale desiderio che s'inframmezzano sempre più spesso impedendo un reale incontro, che è opportuno saper conoscere e svelare senza per questo abbandonare o demonizzare.
Il riferimento è a tutti quei social network e chat, in primis Facebook o Twitter, che possono essere considerati nel contempo sia enormi potenzialità che esorbitanti limitatezze. Le testimonianze raccolte da molti giovani, ma anche i fatti di cronaca ci mostrano che per via di queste piattaforme, sempre più spesso, amicizie, affetti e relazioni sono andate in tilt. Segnale confermato da una recente relazione del tribunale ecclesiastico della Liguria che ha indicato come una delle nuove cause di richiesta dì scioglimento del vincolo matrimoniale proprio una non adeguata utilizzazione di Facebook.
Altra nota sul campo, non sfuggita ai più accorti osservatori, consente di rilevare come la modalità di utilizzazione di questi connettori sociali stia sempre più configurando le dinamiche delle relazioni interpersonali, incidendo un imprinting che sembra costituire per molti giovani l'unico parametro e criterio di valutazione e discernimento. Da qui comprendiamo come il vorticoso e irrinunciabile affannarsi nell'alimentare e aggiornare costantemente il proprio profilo, per alcuni anche ogni dieci minuti, comunicando sensazioni ed emozioni, gioie e paure, sia l'espressione di un bisogno narcisistico non appagato, votato alla ricerca spasmodica di un commento o di un tag (= "mi piace"), ma anche segno di relazioni interpersonali alla ricerca del consenso dell'altro, capaci di deputare amici solo coloro che scrivono un "ok" o "mi piace" su una foto o su un'annotazione.
L'autenticità e l'originalità è ritenuta direttamente proporzionale alla capacità di essere spontanei, disinibiti e disinvolti, a volte irriverenti, il tutto senza censure ma soprattutto senza quasi pensarci, dal momento che tutto è buttato in piazza nel giro di pochi secondi, secondo un passaggio forse troppo rapido dalla parola parlata a quella digitata. Comprendiamo allora perché uno dei fattori di maggiore fragilità sul piano affettivo e relazionale si manifesti a livello del dominio di sé. Manca una castità o dominio nel parlare, nel mangiare, nel vestire, persino nello scegliere il proprio orientamento sessuale, perché ormai anche quest'opzione è percepita come una libera scelta e non un dato biologico ben definito.
Giovani in cerca di autore ma anche pur sempre sorgente di enormi potenzialità, alla ricerca di un senso e di chi possa ascoltarli e capirli, sostenerli e orientarli, testimoniando loro il volto autentico della Chiesa, contribuendo a rimuovere ogni forma standardizzata e massificata di chiusura e rifiuto che ciclicamente si affaccia dall'adolescenza in poi. I diaconi come uomini dell'ascolto, mediatori che conoscono il loro mondo, papà e forse anche nonni, non possono anche in quest'ambito, anche per i nostri giovani essere sicure figure di riferimento? E che dire della chance che hanno i diaconi che lavorano come insegnanti? E quanto può dare il cuore indiviso dei celibi?
Un'opportunità positiva di quest'era digitale potrebbe anche prevedere percorsi di mutuo scambio e collaborazione fra i giovani e i diaconi più anziani. Come già avviene in alcune diocesi in Italia, penso a quella di Padova, dove si segnalano iniziative che vedono dei giovani aiutare sacerdoti e religiosi e perché no anche diaconi, che si muovono ancora con difficoltà nel mondo digitale, ad imparare questo nuovo alfabeto per utilizzarne le potenzialità. In un tempo in cui i giovani necessitano di paternità spirituale questo potrebbe essere un utile percorso.

Diaconia dell'annuncio oggi
Ci possono essere allora diaconia ed annuncio anche attraverso questi mezzi di comunicazione sociale. Sarà solo sufficiente, per quanti hanno scelto di navigare in questo nuovo mare, assumere una bussola che fornisca un orientamento sereno e sicuro in modo da non naufragare, che abbiamo identificato in una diaconia che sperimenta quella santa passività fatta di un umile abbandono che ci fa divenire servi e strumenti.
Dopo un triennio d'interventi e rubriche presso l'emittente cattolica di Tele Radio Padre Pio che oramai "posta" parte delle trasmissioni anche su Youtube al canale Padre Pio TV, ho personalmente potuto apprezzare il valore e la potenzialità di queste nuove tecnologie che la cultura digitale ci offre, sperimentando le enormi possibilità di evangelizzazione che esse possiedono, e un servizio capace di dare un messaggio di speranza e di consolazione.
Giustamente Giovanni Paolo II li definì come i nuovi areopaghi dei nostri tempi. Cambia tuttavia la prospettiva e la mediazione. Una parola offerta non a volti ben precisi e delineati ma verso una telecamera fissa con un teleobiettivo di acciaio e a volte un puntino rosso che lampeggia. Ma dietro sì, ecco tanti volti e storie in attesa e in ricerca, ai quali, vincendo l'abitudine e la routine, bisogna saper pensare e servire. Oltre al valore propedeutico all'evangelizzazione, oltre ai molteplici e variegati percorsi d'informazione, i mezzi di comunicazione sociale, almeno quelli cattolici, devono poter riscoprire il loro valore di educazione e formazione alla fede. Emergono ogni giorno tante domande e nuove questioni. Fra queste è centrale quella relativa alla connessione o interrelazione fra ascolto e visione, non solo inerente alla distinzione fra radio e TV, ma relativa all'intenzionalità soggiacente alla scelta di format, scenografie, immagini, video e programmi.
È la visione a sostenere l'ascolto o è l'ascolto a dare forza alla visione? Quando si punta tutto sulla visione probabilmente i mezzi di comunicazione sociale cattolici dell'odierna cultura digitale non riescono a svolgere una reale diaconia verso l'uomo, non lo aiutano a crescere, a vivere una fede matura, ma sembrano cavalcare l'onda dell'emotività e dell'entusiasmo, di una religiosità di circostanza.
Invece quando l'immagine rimanda all'ascolto e si focalizza sul sentire, si tenderà a recuperare quell'antropologia biblicamente narrata che ci lascia intendere che solo l'ascolto può insegnare a saper vedere, vincendo le suggestioni e diramando ogni torbidità.
Vivere da protagonisti questi tempi, governare e non subire l'attuale cultura digitale, utilizzando anzi le opportunità che essa ci offre, diverrà anche per i diaconi un impegno non più rimandabile, un luogo di esercizio di una diaconia verso l'uomo, un'opportunità di formulare proposte alternative e orientative, come molti di noi possono sperimentare mediante sane mailing list, che presentano a destinatari nascosti ma uniti nel cammino di ricerca e conoscenza della verità, utili percorsi di ascolto e formazione.


(G. Chifari è docente di Teologia biblica presso l'Istituto Scienze Religiose "Giovanni Paolo Il" di Foggia)



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