Il senso di un percorso diaconale


Il diaconato in Italia n° 174
(maggio/giugno 2012)

SPECIALE


Il senso di un percorso diaconale
di Giuseppe Tuninetti

Sono trascorsi quarant'anni da quando a Torino fu introdotto il Diaconato permanente: era il marzo 1972. L'annuncio, dato a nome dell'arcivescovo Pellegrino da don Giovanni Pignata, era una eco del Vaticano II, di cui quest'anno celebriamo il 50° anniversario di inizio: 11 ottobre 1962.
Il ripristino del diaconato permanente, già presente capillarmente nelle comunità della Chiesa primitiva, costituisce una delle più importanti decisioni conciliari. Come avvenne per quasi tutti i documenti conciliari che sanzionarono filoni di rinnovamento già presenti, così accadde per il diaconato: quanto si decise non nasceva dal nulla. Alle spalle c'era la riflessione ecclesiologica compiuta nell'ultimo ventennio nel mondo di lingua tedesca, nonché l'autorevole costituzione apostolica di Pio XII, del 1947, Sacramentum ordinis, che affermava gli effetti sacramentali del diaconato.
Il Vaticano II ebbe un duplice approccio al diaconato: uno sacramentale- ecclesiologico nelle costituzione dogmatica Lumen gentium, l'altro pastorale, nel decreto Ad gentes, sulla vita missionaria. Nel capitolo terzo della costituzione, dedicato alla gerarchia e in specie all'episcopato, si affermava: il diaconato potrà essere in futuro restituito come vero e proprio grado della gerarchia. Spetterà poi ai competenti ceti episcopali territoriali, di vario genere, decidere. Il decreto, voce di una necessità impellente di forze pastorali, specie in Africa, recitava: «È bene infatti che uomini, i quali di fatto esercitano il ministero di diacono […], siano confermati e stabilizzati per mezzo della imposizione delle mani».
Fu il cardinale Suenens, primate del Belgio, a porre autorevolmente in assemblea conciliare il tema del diaconato permanente, privilegiando l'approccio sacramentale- ecclesiologico, come ebbe a ribadire in Ricordi e speranze del 1993: «Fondamentalmente il mio intervento sul diaconato non era motivato tanto dalla scarsità numerica del clero, quanto piuttosto dall'intrinseco valore sacramentale di quest'ordine all'interno della Chiesa [...]; feci prevalere la tesi teologica: il diaconato fa parte della struttura ministeriale sacramentale della Chiesa e non deve essere considerato riduttivamente una fase transitoria verso il sacerdozio».
Il cardinale Pellegrino introdusse il diaconato, dopo aver avuto l'ok del Consiglio Presbiterale Diocesano nel gennaio 1971 e l'autorizzazione della CEI dell'8 dicembre 1971. Questo documento era importante, perché completava, anche sotto il profilo teologico e pastorale, il non molto detto dal Concilio sul diaconato, delineandone meglio l'identità teologico- ecclesiologico- pastorale. La decisione del marzo 1972 non fu improvvisa, bensì preparata da almeno un anno di progettazione. Si cominciava, tra i primi in Italia, un cammino previsto triennale, letteralmente da inventare nella sua attuazione. La responsabilità fu affidata a don Giovanni Pignata, coadiuvato da don Vincenzo Chiarle per la formazione spirituale, da padre Eugenio Costa 5.J senior e da don Luigi Losacco, per la formazione biblico-teologica.
Pellegrino era un vescovo conciliare: credeva nel Concilio, nel suo spirito e nei suoi documenti, che nominato arcivescovo di Torino nel settembre 1965 considerò suo programma pastorale. Anche per questo volle, appena possibile, introdurre il diaconato; stimava il diaconato e amava i diaconi, ai quali raccomandò come elemento distintivo irrinunciabile lo "spirito di comunione".
Per ogni concilio ecumenico si pone il problema della ricezione, ossia della sua accettazione e assimilazione. È sempre stato un processo lungo: l'attuazione del concilio di Trento degli anni 1545-1563 richiese secoli. Anche la ricezione del Vaticano II, diaconato compreso, richiederà tempo. A una valutazione attenta, pur sommaria, sembra di poter dire che verso il diaconato si è avuto un approccio prevalentemente pastorale e non ecclesiologico (per il suo valore sacramentale), per cui il diaconato permanente è stato introdotto dai vari vescovi su istanza della scarsità di preti, con pericolosa ricadute sulla loro formazione globale e sul loro impiego pastorale.
A Torino il cardinale Ballestrero, verso il diaconato e i diaconi, mantenne l'approccio positivo del predecessore. Come prova la diffusa presenza di diaconi, la nostra diocesi ha accolto il diaconato. Ma come? per convinzione? per necessità? Tra i preti sembra sia prevalso l'approccio pastorale-funzionale, espresso bene dalle parole di un parroco: Non so che farmene di un diacono! Come se l'ecclesiologia conciliare fosse a disposizione di vescovi e di preti, ossia una ecclesiologia "fai da te", frutto anche un diffuso atteggiamento selettivo verso le decisioni conciliari. Va pur detto che non pochi parroci sanno apprezzare e valorizzare in modo corretto (non soggettivo) i diaconi. Quanto ai fedeli, digiuni in genere di ecclesiologia, essi valutano il diaconato con i criteri recepiti dai preti e i diaconi sulla base del loro comportamento concreto: come dire, il diaconato si presenta con le parole dei vescovi e dei preti e con il volto dei diaconi, ma si impone soprattutto con l'autorevolezza di questi ultimi. Gli oltre 130 diaconi della nostra diocesi costituiscono un formidabile patrimonio pastorale, che, anche in nome della fedeltà al concilio, va accolto, migliorato e sempre meglio valorizzato.


----------
torna su
torna all'indice
home