Discernere Cristo per evangelizzare


Il diaconato in Italia n° 174
(maggio/giugno 2012)

EDITORIALE


Discernere Cristo per evangelizzare
di Giuseppe Bellia

Evangelizzare è un termine che da oltre un ventennio circola un po' in libertà nelle nostre comunità e, spesso, nel sentire cristiano più diffuso, indica un combattivo compito pastorale di conquista o di riconquista del terreno perduto tra la gente per la tristezza dei tempi in cui si vive. Se poi la forma sostantivata è unita a qualche altro elemento caratterizzante, come per esempio nel caso dell'espressione "nuova evangelizzazione", allora la spinta missionaria e la voglia di proselitismo appaiono più certe e pervasive. Anche l'attività apostolica e il ministero diaconale sono stati contagiati da questo primato del fare, pensando che con un accresciuto impegno pastorale e con una rinnovata dose di entusiasmo si poteva raggiungere un livello più soddisfacente di ascolto e di accoglienza, se non addirittura di presa storica e politica. La lezione di don primo Mazzolari, di don Lorenzo Milani, del vescovo Tonino Bello e gli ammaestramenti dello stesso Vaticano II non avevano quindi insegnato nulla? Dove è finita la riflessione profetica del «piccolo resto»? Inutilmente negli anni passati in molti hanno messo in guardia che, in una seria impresa di evangelizzazione, di nuovo non poteva esserci proprio niente. Nessuna novità nell'essere di Cristo, niente di nuovo nell'unico Vangelo. L'uomo è sempre lo stesso, come identica è la fede nelle sacre scritture e, antico e uguale, resta il peccato: nessuna di queste cose può avere carattere di novità. Già il saggio Qoelet ci aveva ammonito che «non c'è niente di nuovo sotto il sole», perché «quello che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà» (Qo 1,9). L'espressione, messa in circolo da Giovanni Paolo II, alludeva in verità a una nuova Pentecoste, a una rinnovata azione della grazia, a una crescita conseguente dello zelo che avrebbe permesso ai cristiani di rispondere con più energia alle situazioni inedite, ai mutamenti imprevisti e alle sfide del tempo presente. Certo tutto questo. era immaginato attraverso una ripresa più convinta dell'azione pastorale, svecchiata di tutti gli orpelli formali e ripetitivi di una tradizione ormai esausta e passatista.
La cristianità non poteva accontentarsi di vivere di rendita se voleva giungere al cuore dell'uomo contemporaneo, se voleva trovare ascolto tra le masse di un Occidente scristianizzato e di un Terzo Mondo sull'orlo di una miseria che sembrava invincibile. La nuova spinta a evangelizzare doveva così raggiungere due obiettivi: ottenere una nuova ondata di grazia dallo Spirito per raggiungere tutti gli uomini del proprio tempo, a partire dai poveri, nel loro concreto contesto umano e sociale. Va da sé che in questo modo d'interpretare l'opera di evangelizzazione, per molti operatori pastorali l'accento finiva con ricadere tutto sul secondo obiettivo: mostrarsi cioè all'altezza dei tempi sapendo discernere i segni che aiutavano a cogliere la portata di quei mutamenti epocali, di quei salti qualitativi che apparivano irrecuperabili a un'azione pastorale, non sapendo intervenire con tempestività ed efficacia. Il progressivo cedimento delle risorse spirituali di chiese e cristiani e l'inadeguatezza degli strumenti tradizionali, mostravano immagini avvilenti di cristiani disorientati, incapaci di fornire risposte e linguaggio adeguati per offrire il vangelo all'umanità e dare speranza a chi ne faceva richiesta.
Ma anche su questi importanti segni dei tempi da discernere per avere luce, negli ultimi anni s'è creata una corrente di pensiero approssimativa e prammatica che ha causato non poca confusione. In realtà la questione dei segni dei tempi ha interessato in parte ecclesiologi e molto di più i pastoralisti, a partire dai pronunciamenti magisteriali connessi alle prospettive del Vaticano II, mentre inconsistente è stato l'apporto dei biblisti e degli stessi teologi.
È stato Giovanni XXIII a utilizzare per la prima volta l'espressione segni dei tempi nella Costituzione apostolica Humanae salutis, facendo puntuale riferimento al logion matteano: «seguendo gli ammonimenti di Cristo Signore che ci esorta ad interpretare "i segni dei tempi" (Mt 16,3), fra tanta tenebrosa caligine scorgiamo indizi non pochi che sembrano offrire auspici di un'epoca migliore per la Chiesa e per l'umanità». Con queste parole, il Pontefice intendeva ricordare che per i cristiani la storia è "luogo teologico", perché è nello spazio e nel tempo che si continua a manifestare l'ininterrotta opera di salvezza del Signore incarnato, mediante il dono incessante del suo Spirito. In questa prospettiva, i segni dei tempi, costituivano delle indicazioni positive donate dal provvido governo divino per orientare gli uomini a comprendere la storia e guidare i credenti nelle scelte testimoniali a favore della Chiesa e di tutta l'umanità.
Giustamente è stato osservato che il "papa buono" non aveva approfondito in quale precisa direzione era necessario guardare, per scorgere la presenza di tali segni. Un anno e mezzo dopo, e precisamente l'11 Aprile del 1963, nell'enciclica Pacem in terris, offriva un'ampia riflessione sui fenomeni del mondo contemporaneo da osservare e giudicare come dati qualificanti lo spirito del tempo e avere così elementi utili per definire la categoria dei "segni dei tempi" (come si può vedere in particolare ai nn. 21-23; 45-46; 67.75 del documento pontificio). Anche in seguito la locuzione è stata ripresa, con un arricchimento sempre più pastorale che esegetico. Paolo VI, nell'Ecclesiam suam, vi farà riferimento a proposito del tema programmatico dell'aggiornamento: «lo abbiamo confermato quale criterio direttivo del Concilio Ecumenico, e lo verremo ricordando quasi uno stimolo alla sempre rinascente vitalità della Chiesa, alla sua sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi, e alla sua sempre giovane agilità di tutto provare e di far proprio ciò ch'è buono, sempre e dappertutto» (n. 52). Più avanti si soffermerà sulla questione dei segni dei tempi e sulla corretta metodologia da applicare a loro riguardo. Se ne ha, infine, soltanto qualche cenno nella Evangelii nuntiandi (nn. 75-76) e nella Redemptor hominis (n. 15).
Solo per completezza d'informazione si può ricordare che una trattazione più esauriente del dibattito che ha interessato il senso e il valore da assegnare a un'espressione evangelica divenuta una chiave di volta per risolvere situazioni della Chiesa e degli ecclesiastici in ordine al rapporto con il mondo e con la sua modernità, si trova nel Nuovo dizionario di spiritualità, curato da S. De Fiores e T. Goffi del 1979. Rispetto ad altre trattazioni di Dizionari di pastorale dove la questione dei segni dei tempi è trattata con un semplice rimando ai testi conciliari, l'articolo del Nuovo dizionario prende le mosse dai dati biblici, riprende per sommi capi la discussione conciliare, per poi estendere il discernimento dell'espressione matteana al piano antropologico e a quello teologico, all'interno della tradizione ebraico-cristiana (pp. 1400-1442). Per un'ulteriore conoscenza sul rapporto Chiesa-mondo, si deve ricordare quanto ha detto l'allora card. Ratzinger, nel suo Commento teologico alla terza parte del segreto di Fatima, del 13 Maggio 2000.
Il teologo, riprendendo la questione dei segni storici della salvezza, precisava che «interpretare i segni del tempo alla luce della fede significa riconoscere la presenza di Cristo in ogni tempo». Non è una precisazione da poco l'aver riformulato l'espressione al singolare; di sicuro non è una scelta di pedanteria grammaticale, ma un modo esegeticamente e teologicamente corretto di distinguere i segni "dei tempi", a cui Gesù fa riferimento in Mt 16,3, dai segni "del tempo" attuale, che sarebbe il vero oggetto del discernimento richiesto al popolo cristiano. Dal punto di vista storico-esegetico i segni dei tempi, come ricordava don Umberto Neri, non è altro che l'irrompere di Cristo nella scena del mondo. Il segno è Lui: Gesù di Nazaret Signore della storia.
Il paziente lettore si chiederà il perché di questa riflessione sui segni dei tempi e che cosa ne viene al ministero diaconale. Il fatto biblico dell'evangelizzazione se richiede studio e vigilanza per compiere l'opera di Dio, richiede di compiere tutto alla maniera di Cristo, da una posizione di marginalità. Il diacono più di altri è chiamato a partecipare alla marginalità del rabbì galileo. Si può discutere la distinzione introdotta da Ratzinger, ma una cosa è certa: non si dà lettura credente dei fenomeni storici, senza fare riferimento all'azione di Cristo e del suo Spirito, perenne segno donato da Dio per tutti i tempi.

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